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Gian Enzo Sperone

A trentacinque anni dall’apertura della sua galleria, il racconto degli inizi a Torino con Mario Tazzoli e Luciano Pistoi, l’amicizia con Giovanni Agnelli e le sue esperienze internazionali. Da Ileana Sonnabend a Parigi sino all’esperienza newyorkese con Leo Castelli. Dal “Giornale dell’Arte” n. 187, aprile 2000

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Aldo Mondino e Gian Enzo Sperone davanti all’ingresso della galleria in via Cesare Battisti a Torino nel 1964

Aldo Mondino e Gian Enzo Sperone davanti all’ingresso della galleria in via Pallacorda a Roma nel 1994

Gian Enzo Sperone ha festeggiato trentacinque anni di attività, traguardo non da poco per un gallerista. Il conto degli anni parte dal 1964, quando Sperone, oggi sessantunenne, apriva il suo primo spazio a Torino dopo gli anni di «apprendistato» con Mario Tazzoli, titolare nella stessa città della galleria Galatea, e dopo la direzione della galleria Il Punto. L’elenco delle tendenze e degli artisti presentati in quegli anni rivelano in Sperone un protagonista del rilancio culturale, su respiro inter nazionale, della città: da lui sfilavano il New/dada e la Pop/art, l’Arte povera e il Minimalismo. Lasciata Torino nel 1978 e chiusa dopo una breve parentesi una galleria a Milano, Sperone si è rilanciato a Roma e a New York, rimanendo sulla breccia della più stringente attualità, prima con la transavanguardia internazionale e ora con i nuovi talenti.

Il percorso di Gian Enzo Sperone viene analizzato in un libro edito da Hopefulmonster (500 pp., 800 ill. b/n e col., L. 115mila) con una presentazione di Robert Rosemblum, testi di Anna Minola, Cristina Mundici, Franceso Poli e Maria Teresa Roberto e un ricco corredo d’immagini che documentano gli allestimenti delle mostre organizzate nei vari spazi della galleria. In questa intervista, Sperone abbina la rivisitazione di trentacinque an ni di attività a un’analisi dell’attuale mo mento del sistema dell’arte.

Signor Sperone, lei è nella posizione idonea per valutare due momenti di grande vitalità artistica di Torino: gli anni Settanta e la fase attuale, contrassegnata dall’attività di due musei, il Castello di Rivoli e la Galleria Civica, che, anche in virtù del recente intervento finanziato della Fondazione Crt, possono fare della città il principale polo italiano del contemporaneo. Quali sono le sue valutazioni?

Il ricordo che conservo di Torino relativa mente agli anni dei miei esordi è quello di una città discreta eppure molto aperta, an che se non facile agli entusiasmi. Accanto a una schiera piuttosto eccezionale di artisti, con forti potenziali eversivi sul piano del linguaggio, c’era una borghesia progressista, che senza eccessivi clamori si è schierata tempestivamente su ipotesi artistiche non del tutto rassicuranti.

Oggi Torino è una città che ha subito quel processo di trasformazione in corso in ogni settore; parlo della rivoluzione dei mezzi di comunicazione che ha messo tutti gli operatori dell’arte in una situazione da un lato più facile e dall’altro più problematica: se è vero che oggi artisti e galleristi non sono costretti a fare lunghe anticamere per emergere e che la cassa di risonanza è immediata, è anche vero che c’è più dispersione.

Ancora a proposito di Torino: com’è riuscito a vendere Arte povera a un pubblico (compresi i dirigenti Fiat) che per ideologia e formazione avrebbe dovuto collocarsi agli antipodi rispetto al messaggio, che lei stessa ha definito eversivo, di quella tendenza?

I miei successi, a dire il vero, sono iniziati con la Pop/art; del ’62, quando assunsi la direzione del galleria Il Punto, è una personale di Roy Lichtenstein. Il mio impegno con l’Arte povera è iniziato ovviamente dopo; comunque non è stata una marcia in discesa. È un tipo di arte che non permetteva al mercato di mettere insieme le più «belle» opere che si potessero trovare; però consentiva di allestire belle mostre: per «belle mostre» intendo esposizioni capaci di provocare uno sconquasso poetico e linguistico, e lei capisce che questo aspetto è raramente allineato con la vendibilità delle opere.

Quanto alla Fiat, nella persona del suo massimo rappresentante, devo dire che sono stato molto aiutato dall’avvocato Agnelli: non già in termini di acquisizioni ma di un sostegno improntato a un’estrema simpatia.

Il verso di un cantautore (torinese), dice va: «Torino non è New York». Parliamo di New York, allora, dove attualmente lei svolge gran parte della sua attività.

Anzi tutto: è ancora una vera capitale dell’arte; Io dico spesso ai miei colleghi più giovani che se vogliono perdere tempo possono restare comodi dove sono; se invece hanno voglia di entrare in presa diretta con la realtà è meglio che facciano un salto a New York, oppure a Los Angeles. Per che io credo che l’America sia ancora, e lo sarà per molti anni, uno straordinario centro propulsore. È un meccanismo ben lubrificato, che consente a molti di vivere il sogno dell’arte, ma quello vero, non quel lo del mercato delle illusioni. Alla base di questo circuito è il lavoro, davvero straordinario, svolto dalle istituzioni pubbliche, ma anche dalle scuole, più pratiche e meno teoriche rispetto a quelle europee, da cui escono giovani artisti con una formazìone molto particolare.

In genere sono più liberi rispetto ai loro colleghi europei e hanno meno pretese. A Brooklyn i giovani artisti vivono in condizioni a dir poco imbarazzanti, con sistemazioni che qualsiasi loro coetaneo italiano o europeo rifiuterebbe. Inoltre, e questo lo dico ricordando i miei inizi a New York, l’America non è sciovinista, e chiunque abbia qualcosa da dire, e Io dica con freschezza e originalità, viene quanto meno ascoltato, senza che qualcuno tenti di ostacolarlo. Possono testimoniarlo gli artisti italiani che hanno deciso di trasferirsi a New York.

Infine, se vuole, entro in dettagli più tecnici, ad esempio quelli relativi alla legislazione sulla circolazione delle opere d’arte, che negli Stati Uniti è infinita mente più libera rispetto all’Italia, dove sono ancora in vigore le restrizioni dettate da una legge del 1939, e al sistema fiscale. Quello americano è conosciuto come uno dei più brutali al mondo, ma tu gallerista paghi per quello che guadagni, e non è basato, come invece in Italia, sull’idea di un continuo incremento del fatturato.

Quali sono i nuovi artisti che lei sostiene a New York?

Intanto premetto che i moventi delle mie scelte sono, nell’ordine, una curiosità specifìca per il lavoro degli artisti e la voglia di sfuggire all’accademia; tendo cioè a far parte di una minoranza rispetto alla maggioranza che aderisce a un gusto dominante. Oggi questo gusto e orientato verso i nuovi mezzi di riproduzione, come la fotografia o il video, e tutto ciò sta diventando un’accademia.

Però questo si scontra con buona parte della sua vicenda di gallerista: lei, in effetti, ha presentato con regolarità, e con tempesti vita, tendenze assolutamente dominanti…

ma oggi la situazione è diversa. Non esistono una o due correnti forti; è tutto molto più parcellizzato, ed è all’interno delle particolarità che bisogna operare. Ma, oggi come vent’anni fa, sono molto attento al linguaggio utilizzato dagli artisti; più volte mi sono reso conto che l’artista allineato, per quanto intelligente e aggiornato, non è necessariamente il più originale.

E in quali artisti americani individua questa originalità?

Attualmente mi sto occupando di quelli che un po’ genericamente sono definiti «artisti del bricolage»; artisti, cioè, che la vorano e vivono vicino alle discariche, dove possono reperire un repertorio infinito di oggetti e d’immagini. Tom Sachs è uno di questi: tra le sue ultime creazioni, armi funzionanti, come fucili e pistole, costruite con materiali di recupero. Quelle opere sono costate alla gallerista Mary Boone una denuncia, perché all’inaugurazione si distribuivano proiettili invece che stuzzichini.

Sachs costruisce anche oggetti di una meticolosità incredibile: sono di cartone, ma la loro perfezione mima, ironicamente, l’abuso della griffe; una sua toilette nera, ad esempio, è firmata «Prada». Ma c’è dell’altro; Tom Sachs non perde occasione di segnalarmi altri artisti, che lui per varie ragioni considera affini, fornendo così un ruolo di informazione gratuita e tenendomi continuamente all’erta.

Ci sono stati altri artisti che, nel corso della sua carriera, hanno in qualche modo affiancato il suo lavoro al di là del puro e semplice ruolo di «fornitori»?

Sì, anche perché nel mio caso gli artisti hanno spesso svolto le funzioni che in al tre situazioni sono tradizionalmente assegnate al teorico, allo storico o al critico. All’inizio è stato determinante, per me, Michelangelo Pistoletto: la sua azione era tesa a portare un suo amico, l’allora giovane Sperone, a una conoscenza internazionale dei fatti dell’arte. Mi disilluse conmpletamente su quella che allora era defìni ta Nuova figurazione, ed era un linguaggio dominante in Italia; mi portò a Parigi, dove conobbi Ileana Sonnabend che esponeva l’arte contemporanea americana; e Pistoletto ha sempre alimentato in me l’idea che l’arte fosse soprattutto un’e sperienza dello spirito. Altri artisti a me molto vicini in questo senso sono stati Aldo Mondino e Joseph Kosuth.

Cosa le hanno insegnato, invece, i suoi primi «maestri» in ambito galleristico?

Nei primi anni torinesi ho avuto a che fare con Tazzoli, direttore della galleria Ga-latea, e con Luciano Pistoi. Entrambi erano galleristi atipici, perché dotati di un senso della qualità che non si riscontra facilmente, e perché portati per diversi motivi ad essere dei viaggiatori alla ricerca di un confronto a respiro più vasto di quello effettuabile dietro l’angolo di casa.

Può fare nomi e cognomi dei critici e dei collezionisti che l’hanno seguita con più dedizione e intensità?

Sono «nato» con Germano Celant e sono «cresciuto» con Achille Bonito Oliva. Tra i collezionisti cito Giuseppe Panza di Biumo, che mi onorò della sua fiducia sin da gli inizi della mia carriera, quando venne a visitare la citata mostra di Lichtcnstein.

Ci sono artisti che invece le sono sfuggiti?

All’inizio della mia attività non ho potuto «avere» Jasper Johns: è un artista che produce pochissimo, e il suo carattere, piuttosto chiuso, non è facilmente aggirabile; per quanto riguarda gli anni Ottanta, invece, mi manca Jeff Koons, che nel suo ambito considero l’artista più prorompente dopo Andy Warhol. Ma voglio anche dire che ho avuto la fortuna di conoscere altri artisti: e spezzo una lancia a favore di Julian Schnabel, sempre penalizzato dalla critica e dallo stesso mercato. Trovo che i suoi la vori siano molto sottovalutati: costano tra i 100 e i 300 milioni, e non c’è proporzione rispetto, ad esempio, a Robert Gober o a Matthew Barney.

Un altro autore impor tante, ma dalle quotazioni esageratamente basse, è Peter Halley, le cui opere costano tra i 40 e i 150 milioni. Eppure, proprio a proposito di Halley, fece scalpore, tempo fa, la notizia della rottura del suo contratto. Emersero in quel l’occasione cifre «calcistiche» circa i suoi «ingaggi» …

Parlo volentieri di Halley, perché la sua vicenda è indicativa circa una serie di nuove problematiche. Quando lui ha deciso di interrompere il contratto con Ileana Sonnabend e Larry Gagosian, perché riteneva che questi miei colleghi, suoi rappresentanti in esclusiva, non lo sostenessero a sufficienza nei periodi dì crisi, in realtà ha capito che la figura del mercante esclusivista ha fatto il suo tempo.

E più produttivo, per un artista, affidarsi a un gruppo di galleristi, attivi in diversi luoghi del circuito; Halley ha intrapreso questa strada, e gestisce se stesso con molta oculatezza, con una produzione limitata a una ventina di quadri all’anno, senza rapporti troppo vincolanti con i galleristi. In tal senso io ho iniziato a muovermi presto, attraverso collaborazioni con Konrad Fisher, Anthony D’Offay, Bruno Bischofberger, senza contare Leo Castelli: tutti sanno che il rapporto con lui ha superato la semplice relazione da mercante a mercante.
Si dice anche che la galleria classicamente intesa sia un po’ sorpassata. Ma come sono cambiate le gallerie in questi trentacinque anni?

 

È intervenuto un fattore determinante, che fa capo alle case d’asta, cresciute enormemente in questo periodo. Però non interpreto questo sviluppo come un fenomeno negativo per le gallerie. Sebbene i mercanti siano stati relegati in nicchie specializzate, il lavoro delle case d’asta, che svolgono al contrario un’attività capillare, non possono andare lontano senza le gallerie. Noi, che quotidianamente svolgiamo un lavoro di sensibilizzazione, dobbiamo sfruttare la cassa di risonanza fornita dalle aste.

Così le due categorie devono «sopportarsi» e collaborare. Infine, e questo lo dico a beneficio dei collezionisti, non è sempre vero che in asta si possano spuntare prezzi migliori.

Come lavora nei periodi di crisi?

Riesco a sopravvivere perdendo il grasso che ho accumulato negli anni precedenti. Come mercante, mi considero il primo cliente della mia galleria. Non riuscirei a immaginare la mia attività senza quella innata vocazione al collezionismo che mi consente di mettere da parte quelle opere che poi mi fanno vivere nei periodi di vacche magre. Ho imparato che nei periodi di crisi e di forti cambiamenti finanziari, paradossalmente, si vendono le cose più rare e costose.

Oggi, al contrario, sembra che stiamo vi vendo un periodo di nuova euforia. Qual è la sua interpretazione del boom del 2000?

Le crisi come i boom, nel mercato dell’arte, sono attribuibili a fattori sia interni sia esterni al settore, la cui decifrazione non e sempre agevole. Pensiamo agli anni Ottanta: molti hanno individuato nelle alte quotazioni delle opere uno dei motivi del crollo; però oggi i prezzi sono mediamente più alti rispetto a quelli di quindici anni fa, quando nessuno pensava di pagare un quadro più di cinquanta miliardi o un’opera di un giovane più di venti milioni. Parlo non a caso di pittura: la rarità di buoni dipinti sul mercato sta determinali do il rialzo delle quotazioni.

Chi sono i collezionisti che hanno nuova mente portato in alto il mercato?

Soprattutto negli Stati Uniti c’è una nuova generazione, arricchitasi con investimenti nel mondo delle comunicazioni, che in questi anni si è sviluppato in modo ipertrofico. Altri collezionisti facoltosi provengono dal mondo del cinema e dello spettacolo.

Lei, poco fa, ha detto di sentirsi per metà torinese e per metà newyorkese, e di aver perso un po’ di vista il circuito galleristico italiano. Però era presente all’ultima edizione di Arco a Madrid, e avrà ascoltato le lamentele dei suoi colleghi, anche relativa mente a una scarsa attenzione dello Stato rispetto ai problemi della categoria…

Su questo aspetto le cose si stanno muovendo. Il ministro Giovanna Melandri ha convocato i galleristi italiani, me compreso. Purtroppo, non ho partecipato all’incontro per problemi di lavoro. Però è vero che i miei colleghi stanno scontando un ritardo dovuto anche alla nostra classe politica; così negli ultimi cinquant’anni l’Italia sul fronte del contemporaneo è regredita, con pesanti influenze anche sullo sviluppo dei nostri musei. Inutile aggiungere i problemi fiscali, con l’Iva al 20%, e la tassa d’importazione al 10%.

Nel corso di questa intervista lei ha citato Luciano Pistoi, soprannominato Richelieu per la sua enorme influenza, anche indiretta, sul sistema dell’arte. A volte si sentono dire le stesse cose anche di Gian Enzo Sperone…

No, è una leggenda. In Italia ci sono galleristi brillanti completamente indipendenti, e basti pensare, a Milano, a Massimo De Carlo e Claudio Guenzani, e a Napoli a Lia Rumma. La galleria è un’avventura individuale, anche se tutti abbiamo avuto, consciamente o meno, dei maestri. Personalmente, non cerco neppure di costruire una scuola; io stesso, se dovessi ripetere la mia carriera, non so se rifarei le stesse cose.

intervista di Franco Fanelli per Vernissage

Gian Enzo Sperone con Leo Castelli (al centro) e Joseph Kosuth a Torino nel 1969. ph. Paolo Mussat Sartor