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Giorgio Caproni*

“Stanze della Funicolare” scritta nel 1950 (anno in cui muore la madre). È uno dei componimenti più ambiziosi di Caproni. Allegoria della vita dell’uomo, corda del destino che fissa la funicolare, si può leggere in chiave freudiana. Dalla funicolare non si scende, ed è questa la cosa che più brucia, che più rode, non ci si può fermare in nessuna stazione della vita.

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Giorgio Caproni

Stanze della Funicolare

Una funicolare dove porta,
amici, nella notte? Le pareti
preme una lampada elettrica, morta
nei vapori dei fiati – premon cheti
rombi velati di polvere e d’olio
lo scorrevole cavo. E come vibra,
come profondamente vibra ai vetri,
anneriti dal tunnel, quella pigra
corda inflessibile che via trascina
de profundis gli utenti e li ha in balìa
nei sobbalzi di feltro! È una banchina
bianca, o la tomba, che su in galleria
ora tenue traluce mentre odora
già l’aria d’alba? È l’aperto, ed è là
che procede la corda – non è l’ora
questa, nel buio, di chiedere l’alt.

È all’improvviso una brezza che apre,
allo sbocco del tunnel, con le spine
delle sue luci acide le enfiate,
fragili vene più lievi di trine
sanguigne e di capelli dentro gli occhi
d’improvviso feriti – è d’improvviso
l’alba che sa di rifresco dai cocci
e dai rifiuti gelidi, e sul viso
scopre pei finestrini umidi un’urbe
cui i marciapiedi deserti già i primi
fragori di carrette urgono. A turbe
s’urgono gli spazzini cui gli orecchi
ha arrossato una sveglia irlando l’ora
nel profondo del sangue, neppur qua
può aver tregua la corda – non è l’ora
questa, nel caos, di chiedere l’alt.

E lentamente, in un brivido, l’arca
di detrito in detrito, entro la lieve
nausea s’inoltra – oscillando defalca
i mercati di pesce e d’erbe, e il piede
via sospinge di felpa oltre le bianche
rocce del giorno. E laddove un colore
di febbre la trascorre sulle panche
ancora intorpidite, a un tratto al sole
ahi quale orchestra frange fresca il mare
col suo respiro di plettri. Col rame
d’un primo melodioso tram nel sale
di cui l’etere vibra, fra il sartiame
d’un porto ancora tenero un’aurora
ecco di mandolini entro cui già
ronza chiusa altra spinta – ecco un’altr’ora
in cui impossibile è chiedere l’alt.

E via per scogli freschissimi ed aria,
nella tremula Genova, l’antico
legname della barca a fune in aria
nero travalica i ponti – l’intrico
scande d’obliqui deviamenti, e giunge
per terrazze a conoscere l’aperta
trasparenza del giorno. Ove se punge
umido ancora l’occhio una più certa
scoscesa di cristalli e ardesie, a vela
guai se spinge l’utente oltre il dosato
passo del cavo l’incanto! Si vela
il vetro al vaporoso grido, e il fiato
in nebula condensa la parola
che in nomi vani appanna l’aria – la
cristallina presenza entro cui l’ora
giusta è sfuggita di chiedere l’alt.

L’ora che accendono bianche le tende
agitate alla prima brezza, e al mare
reca ragazze il cui sciame discende
fresco le scalinate – arde di chiare
maglie la lana e l’acuta profluvie
di capelli e di risa, e gli arrossati
calacagni acri nei sandali tra esuvie
di conchiglie ristora e vetri. I lati
vibrano della muta arpa che inclina
unicorde a altre balze, ma già un Righi
rosso da un’altra Genova la cima
tira inflessibile al cavo – dai gridi
l’arca e dalle persiane verdi l’ora
stacca come un sospiro, oltre cui sta
di specchiere freschissime la sola
stanza ove lieve era chiedere l’alt.

E la mano, chi muove ora? chi accende
la mano corallina che saluta
trasparente di sangue, ora che intende
di soprassalto la barca la cupa
mazza di mezzogiorno sul bandone
ondulato che rulla? A un’Oregina
grigia di casamenti ove il furgone
duro s’inerpica, ahimè se una prima
nube la copre mentre una sassata
fa in frantumi quel sangue – mentre oscura
l’ombra del carro la frigida erbata
fra il pietrisco e i bucati, e a lungo d’una
guerra ch’è esplosa a squarciagola, scola
come a grandine un tetto! Forse è qua
che si teme l’arresto? o forse è l’ora
fra i panni scialbi di chiedere l’alt?

Forse qui è l’urto… Ma no! allo Zerbino
alto sopra le carceri, nel grigio
fiato di tramontana ora un bambino
corre ancora di piume – porta il viso
ad un palmo dai vetri, e se scompare
nel colpo che di tenebra riannera
l’aria, fra le rovine d’aria appare
dei genovesi in raduno la nera
mutria – la gara a bocce che il fragore
ai lentissimi passi placa, e in rima
i colpi delle bocce col nitore
entro l’arca di colpe chiude. Inclina
l’arca a quel peso di buio, ma ancora
non l’arresta il suo cavo – via la fa
scivolare in silenzio verso altr’ora
d’un più probabile labile alt.

E i fanali… Che sera è mai accaduta?
quale notte prelude? Una sterrata
zona scintilla di cocci e di muta
l’una, ch’ora un silenzio copre e aerata
luce di pioggia promessa. La prua
volge l’arca a Staglieno, e se la mano
porta l’utente alla bocca, la sua
fronte è spruzzata a un tratto da un lontano
sciame di gocce gelide che al cuore
l’abbandono impediscono. Giù i vetri
tira, ma ormai una musica incolore
altri vetri infittisce – rada stria
di lucori la notte, e all’inodora
promessa sorvolando muta, la
cheta barca procede verso altr’ora
forse più giusta di chiedere l’alt.

E intanto, quale fresca pioggia cade,
notturna, sulla buia funivia
che lentissima scivola e pervade
di silenzio la zona? Mentre via,
via essa ascende vibrando sottile
nella tenebra dolce, da una loggia
che una nebula sciacqua, altra sottile
acqua d’argento s’accende – è una pioggia
più fresca del respiro che dal mare
all’utente apre il petto, ora ch’ei tocca
timido il fildirame cui trasale
lontanissimo un timpano. La bocca
apre stupita a quel trillo, ma ancora
sulle lastre lavate la città
dal profondo altre voci porge – altr’ora
in cui il nichelio non può segnar l’alt.

E la funicolare dolce dove
sale, bagnata e celeste, nell’urna
della città di mare umida? dove,
col suo cavo oliatissima e notturna,
altri scogli raggiunge e una sfilata
di ragazze in amore? A marinai
porgono, andando, la spalla spruzzata
sulle selci ove cantano – ove mai
cadde minuta una pioggia più fresca
sul tepore degli aliti. E sul mare
che ancora tenerissimo rinfresca
col suo lume la notte, ahi se compare
fra le nubi una luna di cui odora
come un pesce la pietra!… Perché l’ora
neppure in sogno è di chiedere l’alt?

Oh, una brezza ha potenza, e via trascina,
con il cavo inflessibile, anche il suono
di quei sandali freschi e della prima
voce che si alza sulle altre. E nel tuono
bianco che il mare fa sulla banchina
superata dall’arca, in un lucore
nuovo una nebbia l’appanna – è la prima
luce d’un’alba che non ha calore
di figure e di suoni, e verso cui
l’arca silenziosissima sospira
la sua ultima meta. Ma nei bui
bar lungomare, ohimè la lampadina
che a carbone s’accende per la sola
donna che lava in terra – che già sa
fra i bicchieri del latte ove sia l’ora
in cui l’utente può chiedere l’alt!

Perché è nebbia, e la nebbia è nebbia, e il latte
nei bicchieri è ancor nebbia, e nebbia ha
nella cornea la donna che in ciabatte
lava la soglia di quei magri bar
dove in Erebo è il passo. E, Proserpina
o una scialba ragazza, mentre sciacqua
i nebbiosi bicchieri, la mattina
è lei che apre alla nebbia che acqua
(solo acqua di nebbia) ha nella nebbia
molle del sole in cui vana scompare
l’arca alla vista. La copre la nebbia
vuota dell’alba, e la funicolare
già lontana ed insipida, scolora
nella nebbia di latte ove si sfa
l’ultima voglia di chiedere l’ora
fra quel lenzuolo di chiedere l’alt