Capsule Digitale

Hulten’s Story (Vol. 4/6)

Calvin Tomkins* racconta il percorso di ricerca del curatore svedese fondatore del Moderna Museet di Stoccolma, primo direttore per 8 anni del Centre Pompidou, fino al 1980, e quindi per 4 anni a Los Angeles dove ha partecipato alla progettazione del nuovo Museum of Contemporary Art. Approdato infine alla direzione artistica di Palazzo Grassi a Venezia inaugurato nel maggio 1986 con un’esposizione sul Futurismo e i futurismi e su tutte le manifestazioni internazionali del movimento e le sue derivazioni. Dal “Giornale dell’Arte” n. 18, novembre 1984

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Inaugurazione del Centre Georges Pompidou a Parigi il 31 gennaio 1977.
Il Presidente francese Giscard d’Estaing visita il Museo accompagnato da Pontus Hulten. ph. Jean-Claude FRANCOLON/Gamma-Rapho via Getty Images

Una seconda delegazione si recò nuovamente in Svezia nell’estate del ’73.
Quell’autunno, Hulten chiese le dimissioni dal Moderna Museet ed arrivò a Parigi. «Ne avevo abbastanza di Stoccolma», dichiarò in seguito. «Avevo ormai cinquant’anni, e davanti a me la prospettiva di altri quindici anni col medesimo lavoro. È stata una buona occasione». Trovò un appartamento all’ultimo piano di uno stabile in rue Beaubourg, a due isolati dal Centre. Nel caotico mondo artistico parigino, egli rappresentava una fresca, imprevedibile e nuova voce, e per qualche tempo nessuno seppe con esattezza che cosa aspettarsi da lui. «Il Beaubourg è un mostro, ma, credo, un buon mostro», aveva detto subito dopo il suo arrivo.
Il tipo di centro che Rogers e Piano vedevano nel Beaubourg, si avvicinava per molti versi al museo ideale vagheggiato da Hulten. Egli apprezzava l’enfasi data agli spazi aperti e proteiformi così come l’ideologia populista che li animava, in base alla quale chiunque non avesse mai messo piede in un museo avrebbe potuto accedervi senza preconcetti, traendone personali conclusioni. La cosa che gli piaceva di più, dichiarò nel 1974, era che gli architetti non avevano una «mentalità museale» e che il Beaubourg pertanto sarebbe diventato «non tanto un museo, quanto una piattaforma per la sensibilità moderna». L’accordo sulle questioni di fondo non evitò tuttavia che Hulten e gli architetti si scontrassero su taluni dettagli, ed in questo caso Hulten si rivelò più tradizionale di quanto aveva lasciato supporre. «Ciò che non approvavo era il fatto che la costruzione fosse così appariscente. Ero fermamente contrario a quei colori brillanti che non tenevano conto, a mio parere, della luce di Parigi. Su questo punto si trascinò a lungo la nostra discussione. Proposi il marrone, l’argento, il grigio. Ad un certo momento decisero di dipingere l’intero edificio in arancione vivace, ed io lo ritenni davvero inopportuno». Gli architetti riuscirono ad imporre i loro colori principali all’esterno dell’edificio, nella biblioteca ed in altri spazi interni, ma non nel museo; Hulten volle che le sale fossero esclusivamente bianche. Si oppose con successo anche alla proposta avanzata dagli architetti di disporre i dipinti su pannelli mobili sospesi al soffitto. Se c’era una cosa che Hulten davvero detestava era vedere le gambe della gente spuntare sotto un quadro. Un dipinto doveva avere un muro, e tanto insistette che alla fine gli architetti progettarono delle pareti: divisioni che potevano essere disposte l’una accanto all’altra o ad angolo retto. Una reminiscenza del modello originale permase nel sistema di deposito della collezione permanente: i quadri sono appesi su pannelli attaccati al soffitto che all’occorrenza venivano calati, permettendo così una visione ravvicinata dell’opera. «Pontus non aveva inteso nel nostro modo la concezione della elasticità interna», ha precisato Richard Rogers. «Ci furono molte battaglie, da lui quasi tutte vinte. A volte Pontus può apparire un poco impreciso, ma in realtà sa esattamente cosa vuole e fa di tutto per ottenerlo, il che fu uno svantaggio, dal nostro punto di vista».
Ma in pratica non c’era tempo sufficiente per discutere in modo approfondito di questi e altri problemi. Hulten era apparso sulla scena relativamente tardi, quando i concetti di base erano già stati fissati. Non riuscì mai ad incontrarsi con Pompidou. Nonostante numerose interviste venissero programmate, la seria malattia del Presidente portò a posticiparne sempre la data, finché nell’aprile del 1974 un tassista newyorkese comunicò la notizia della morte di Pompidou a Hulten, sulla strada che dall’aeroporto Kennedy lo portava a New York. Le conseguenze per il Beaubourg erano allarmanti: infatti il successore di Pompidou, Valéry Giscard d’Estaing, era un aristocratico che si era prefissato di tagliare le spese governative, e che non mostrava apparentemente alcuna simpatia verso l’arte contemporanea. In agosto Giscard richiese una relazione esauriente sulla situazione del Beaubourg. Bordaz e gli architetti non erano autorizzati a riferire i fatti di persona: tutto doveva svolgersi attraverso intermediari. La crisi si trascinò attraverso l’autunno, il ruolo di Bordaz parve essere in pericolo e l’intero progetto sembrava svanire. Finalmente la decisione del Presidente venne resa nota: il progetto poteva proseguire, a condizione di abbassare di un piano l’edificio e di racchiudere tutte le strutture meccaniche all’esterno.
Piano e Rogers spiegarono in un rapporto che l’esecuzione di entrambi gli ordini era impossibile se non con un aumento considerevole delle spese. Sebbene la costruzione del Beaubourg fosse iniziata soltanto il dicembre precedente ed assai poco di essa fosse visibile, l’80% dei contratti era stato firmato e la struttura in acciaio fornita dalla Krupp si trovava già sul luogo. Per di più il progetto dell’edificio non consentiva che venissero eliminati meno di due piani per volta. Gli architetti accettarono di dipingere di bianco l’esterno in acciaio, anziché in blu, e promisero di studiare la possibilità di racchiudere le strutture metalliche dei servizi una volta completato l’edificio. Questi sviluppi parvero porre fine al timore. Circolavano voci che in realtà Giscard avesse voluto stroncare definitivamente il Beaubourg, se Madame Pompidou non l’avesse informato che quella era l’iniziativa che il Presidente aveva più a cuore prima della morte. Quando, poche settimane dopo la morte di Pompidou, un decreto governativo ribattezzò il progetto «Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou», Hulten pensò che quella decisione, benché insulsa, avrebbe probabilmente assicurato la sopravvivenza al Beaubourg.
Non che il Beaubourg fosse fuori pericolo: nel 1975 un nuovo attacco contro di esso venne lanciato all’Assemblea Nazionale e al Senato. Tutte le accuse dell’inizio vennero ribadite: l’incarico affidato ad architetti non francesi, la distruzione della vecchia Parigi, l’affronto al buon gusto, l’affluire di fondi da altre istituzioni culturali. Il risultato fu una riduzione di budget di 7 milioni di franchi nel ’75 e di 10 milioni nel ’76. I tagli furono paralizzanti ma non fatali, e molti elementi previsti subirono una posticipazione o l’eliminazione, come le 5 terrazze con giardino e gli schermi audiovisivi che dovevano essere appesi sulla facciata prospiciente la piazza offrendo spettacoli ed animazioni. Anche alcune mansioni vennero eliminate, con ritardi per il completamento dei lavori. Ma Bordaz, con freddezza, cercava di concludere il tutto il più rapidamente possibile, sapendo che nel caso il Beaubourg si fosse fermato, scarse sarebbero state le possibilità di portarlo a termine.