Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Calvin Tomkins* racconta il percorso di ricerca del curatore svedese fondatore del Moderna Museet di Stoccolma, primo direttore per 8 anni del Centre Pompidou, fino al 1980, e quindi per 4 anni a Los Angeles dove ha partecipato alla progettazione del nuovo Museum of Contemporary Art. Approdato infine alla direzione artistica di Palazzo Grassi a Venezia inaugurato nel maggio 1986 con un’esposizione sul Futurismo e i futurismi e su tutte le manifestazioni internazionali del movimento e le sue derivazioni. Dal “Giornale dell’Arte” n. 18, novembre 1984
Nel frattempo, Hulten, doveva occuparsi dello spinoso affaire des donateurs. Un consistente gruppo di rappresentanti delle famiglie di Georges Rouault, Henri Laurens, Georges Braque e di altri artisti appartenenti alla Scuola di Parigi, che avevano fatto importanti donazioni al Musée d’Art Moderne, espressero la loro opposizione al fatto che quelle opere venissero trasferite dal vecchio museo al Beaubourg. Claude Laurens, figlio del pittore e scultore, insieme al gruppo dei portavoce nominati, manifestò il timore che le donazioni effettuate sarebbero state esposte in modo inopportuno al Beaubourg, o non esposte affatto, o addirittura vendute per acquistare opere più alla moda (il che era vietato dalla legge francese). La reputazione di Hulten quale entusiasta sostenitore del neodadaismo e della pop-art americana, degli happenings e della «nuova museologia» aveva alimentato quelle paure.
Perché non fare del Beaubourg un museo per le opere d’arte prodotte dal ’45 in poi, lasciando dov’erano i cubisti e i post-cubisti? «È necessario avere una spina dorsale», dichiarò Hulten nella primavera del ’77, «che è data da una solida ed articolata collezione permanente. Se non la si possiede, ogni decisione diventa arbitraria, e non si capisce più niente». Seguirono lunghi negoziati, con la conclusione che tutte le opere donate, fatta eccezione per quelle di Laurens, Dunoyer de Segonzac e Rouault, sarebbero state sistemate al Beaubourg; una serie di sale speciali, sotto la giurisdizione del Beaubourg venne assegnata nel vecchio museo per le opere di Laurens, Dunoyer de Segonzac e Rouault; la parte rimanente del vecchio edificio avrebbe accolto opere d’arte della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX, passando sotto la giurisdizione del Louvre. Hulten lo ritenne un tipico compromesso alla francese, diabolico, complesso, probabilmente irrealizzabile, che garantiva insoddisfazione per tutte le parti in causa.
L’affaire des donateurs fu sfortunato sotto parecchi punti. Secondo Hulten, la cattiva pubblicità impedì una serie di lasciti o prestiti che altrimenti sarebbero giunti al museo. L’associazione degli Amici del Musée d’Art Moderne si rese nemica, e non fu possibile rivolgersi a lei in caso di bisogno. Ben più difficile divenne il compito primario di Hulten, quello di colmare le lacune nella collezione, con opere prodotte dal 1905. La data, che segna l’inizio del fauvisme, era stata fissata da Hulten come il punto di partenza della collezione. Ma grazie a Pompidou, Hulten aveva un budget d’acquisto che si aggirava sui 600 mila dollari l’anno, ed in tre anni e mezzo era riuscito a fare buoni acquisti, concentrandosi sull’arte parigina della migliore qualità disponibile (e non doveva trattarsi necessariamente della Scuola di Parigi) con particolare enfasi su Matisse ed i surrealisti. Riuscì a coltivare numerosi donatori nuovi, annoverando, fra i più generosi, Dominique de Ménil, che divideva il suo tempo fra Parigi e Houston, dove il suo ultimo marito si occupava degli interessi della compagnia petrolifera Schlumberger; brillante studiosa d’arte, la signora de Ménil elargì numerose opere di primaria importanza, quali l’ultimo notevole Pollock, «The Deep». Hulten inoltre ottenne alcune significative opere americane degli anni’ 60 attraverso un prestito a lungo termine accordato con Peter Ludwig, il magnate tedesco del cioccolato, uno dei più attivi collezionisti di arte contemporanea; altri lavori rilevanti della scultura del primo costruttivismo furono donate con lo stesso sistema dal Governo sovietico. Non mancava una collezione di disegni, non sufficientemente rappresentata nel vecchio museo. E per quanto i suoi sforzi non avessero innalzato il Beaubourg al livello del MOMA, l’impressione che ne risultò fu indubbiamente positiva.
Nel 1976, quando il completamento del museo era ormai vicino, l’ondata delle opposizioni sembrò smorzarsi. Che fosse o meno un fait du prince stava comunque diventando un fait, un’immagine visiva potente ed inevitabile, come la Torre Eiffel. Di notte, con le migliaia di luci risplendenti sulla sua superficie, sembrava un grande transatlantico e la gente incominciava ad appassionarsi a quel curioso mostro. Il Partito Comunista Francese, all’inizio alquanto sospettoso, divenne uno dei suoi più potenti sostenitori. Il partito deplorava la nascita del Beaubourg come fait du prince, ma approvò il suo sviluppo a centro popolare, fonte di impiego in un momento di grave disoccupazione. I Socialisti continuarono ad attaccario come simbolo elitario, ma Francois Mitterrand, segretario del Partito Socialista, leader della coalizione di sinistra e da molti auspicato come successore di Giscard, aveva mostrato in varie occasioni di essere favorevole al Beaubourg. La freddezza mostrata da Giscard assicurò il supporto della sinistra al progetto. A questo si aggiunsero gli appoggi di Jacques Chirac, il leader dell’ala destra dei Gaullisti, in aspra polemica con Giscard. Chirac era stato un grande amico di Pompidou, e rimase vicino alla signora Pompidou, dichiarandosi aperto sostenitore del nuovo museo.
Il Beaubourg venne così a trovarsi nella curiosa situazione che lo vedeva appoggiato sia dall’estrema sinistra che dall’estrema destra, mentre il Governo di Giscard, suo sponsor ufficiale, cercava in continuazione di tagliarne il budget. Francoise Giroud, che aveva preso il posto di Guy come ministro della Cultura nel 1976 sollevò una piccola tempesta, dichiarando che il «Beaubourg era stato concepito in un momento di euforia finanziaria», e che gli enormi costi «ponevano problemi che andavano risolti urgentemente». Ma la Giroud non passò all’azione. Visitò il museo una o due volte e poi sembrò perdere ogni interesse a quell’argomento.
L’alto costo era una delle più insistenti accuse contro il Centre. Per causa sua, i musei regionali erano stati privati dei fondi e le maisons de la culture languivano. False voci si diffondevano dicendo che il Beaubourg costava da solo più di tutti gli altri musei francesi, Louvre compreso, e Hulten era notevolmente infastidito da simili frottole. Il Louvre, con i suoi quattromila impiegati contro gli ottocentocinquanta del Beaubourg, doveva costare almeno il quintuplo, secondo la sua opinione.
La costruzione del Centre Pompidou era finanziata da speciali stanziamenti governativi e le spese operative correnti, circa 130 milioni di franchi all’anno, rappresentavano il 9% del bilancio culturale annuale del Paese. Hulten riteneva che, se il Beaubourg fosse costato molto, avrebbe offerto d’altra parte un ampio servizio ed il suo successo popolare doveva diventare un buon incitamento per un appoggio da parte dello Stato alle attività culturali in Francia. Il vero problema, secondo Hulten e altri, era che il Governo francese destinava soltanto lo 0,5% di tutte le sue disponibilità per la cultura. «L’intero edificio non ha raggiunto il costo di un sottomarino nucleare. La quota culturale qui è troppo bassa: la Tate Gallery di Londra dispone di molto più denaro per le acquisizioni rispetto a noi, e l’intera faccenda è assurda».
Le recriminazioni che giungevano dalla sinistra, per il fatto che il Beaubourg rappresentava una forma centralizzata di cultura, laddove ciò che si doveva realizzare era una decentralizzazione per dare respiro ad iniziative locali spontanee, era una questione alla quale Hulten trovava difficile rispondere. Quando Michel Guy era ministro, soleva parlare del Beaubourg come della centrale de la décentralisation, un grande centro che non solo avrebbe fornito materiale per mostre itineranti, ma avrebbe organizzato mostre originatesi in musei di provincia, incoraggiando così gli sviluppi regionali. Alcune iniziative vennero prese in questo senso, ma agli occhi di molti il Beaubourg restò un esempio della vecchia tendenza di centralizzare il potere e la cultura a Parigi, depauperando il resto del Paese. Per un vecchio anarchico come Hulten, la situazione non era delle più rassicuranti. Aveva minacciato le dimissioni di tanto in tanto, quando riteneva quell’espediente un utile stratagemma. Se si sentiva più soddisfatto se un governo di sinistra era al potere, idea condivisa dalla maggior parte degli artisti che conosceva, fondamentalmente restava contrario a qualunque tipo di governo, mostrando fedeltà solo al potere sovversivo dell’arte attuale.
«Ero furente col presidente Giscard».