Capsule Digitale

Hulten’s Story (Vol. 6/6)

Calvin Tomkins* racconta il percorso di ricerca del curatore svedese fondatore del Moderna Museet di Stoccolma, primo direttore per 8 anni del Centre Pompidou, fino al 1980, e quindi per 4 anni a Los Angeles dove ha partecipato alla progettazione del nuovo Museum of Contemporary Art. Approdato infine alla direzione artistica di Palazzo Grassi a Venezia inaugurato nel maggio 1986 con un’esposizione sul Futurismo e i futurismi e su tutte le manifestazioni internazionali del movimento e le sue derivazioni. Dal “Giornale dell’Arte” n. 18, novembre 1984

Social Share

Manifestazione contro gli espropri a Parigi nel quartiere Marais di Parigi il 6 marzo 1975, Francia. ph di Alain MINGAM/Gamma-Rapho

Mentre il Beaubourg continuava a crescere, l’area circostante andava trasformandosi rapidamente. Più di 30 gallerie d’arte decisero di aprire bottega nelle sue immediate vicinanze. Boutiques, ristoranti e caffè si moltiplicavano. Stabili decrepiti e vecchi hôtels particuliers fatiscenti venivano restaurati e rinnovati, in modo da svolgere una nuova funzione nel quartiere dell’arte. Il Governo prese misure per limitare la speculazione sui beni immobili, cosicché le paure di sfratti e demolizioni su vasta scala vennero scongiurate. Nel 1975, quando la Galerie Maeght cercò di appropriarsi di numerosi isolati del Marais, più di 500 sfrattati potenziali si unirono in protesta, e Maeght dovette ritirare le sue pretese. Il Beaubourg, dal canto suo, proseguiva nel suo programma restando nei limiti di budget. Le settimane che precedettero l’apertura, fissata per il 31 gennaio 1977, furono frenetiche di preparativi.

Hulten ed il suo principale collaboratore, Germain Viatte, avevano solo cinque settimane di tempo a disposizione per installare la collezione permanente nelle gallerie del terzo e quarto piano. Hulten stabilì che una volta appeso, un dipinto non venisse più spostato, perché non c’era tempo per i ripensamenti. Un’ampia ed importante mostra su Duchamp occupava il quinto piano; era il frutto di due anni di lavoro da parte di Hulten. Aprire con una mostra temporanea di Duchamp era abbastanza rischioso, considerando il fatto che l’artista era stato ampiamente ignorato in Francia, e largamente osannato negli Stati Uniti. Hulten riteneva la mostra di Duchamp introduttiva ad un’altra ben più importante, dal titolo «Paris-New York», che avrebbe esplorato le relazioni artistiche intercorse fra le due città dal 1905 in avanti, suscitando certamente ampie polemiche.

Lo stesso mese dell’apertura, Hulten si trovò ad affrontare artisti francesi adirati, ed un’opinione pubblica ugualmente infastidita all’estero. I sei-settemila artisti parigini non avevano apprezzato il fatto che nessuno li avesse consultati circa il Beaubourg ed erano allarmati perché il declino dei salons annuali rendeva sempre più difficile per artisti senza galleria mettere in mostra le loro opere. Un migliaio di essi si incontrò con Hulten e tre dei suoi curatori a metà gennaio. «Nonostante mi sentissi a disagio, tutto andò per il meglio. Promettemmo loro che avremmo appoggiato un movimento per i diritti sociali degli artisti, ma che disapprovavamo la loro politica estetica. Inoltre, annunciammo che una delle gallerie piccole del piano terra avrebbe ospitato mensilmente una mostra dedicata a due giovani francesi, cosa che appunto stiamo facendo». L’altra questione venne sollevata a causa del rilascio, da parte del Governo francese, di Abū Dāwūd**, il terrorista palestinese ritenuto l’organizzatore dell’attacco agli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco del 1972.

Abū Dāwūd (al centro), la mente dietro l’attacco di Monaco che era ricercato con un mandato d’arresto internazionale, dopo il suo rilascio a Parigi nel gennaio 1977.  Dāwūd è morto in Siria nel 2010.

 

Poster dim. 41,8 x 29,5 cm, Biblioteca di Georgetown University-Lauinger, traduzione: Il Movimento Nazionale di Liberazione della Palestina (Fatah) piange la perdita del grande combattente e leader nazionale Muhammad Dawoud Odeh (Abū Dāwūd). Che ha risposto alla chiamata del suo signore dopo una vita piena di resistenza e lotta e combattendo l’occupazione

 

 

L’indignazione nei circoli artistici americani fu così alta che numerosi artisti, mercanti e collezionisti ritirarono prestiti e donazioni al Centre Pompidou, che si sarebbe aperto due settimane dopo. Alcuni, in un secondo momento, mantennero fede alle promesse, ma un’atmosfera di disastro aleggiava sul luogo, e tutti, Hulten compreso, erano stremati.
Tremilacinquecento persone avevano ricevuto l’invito per l’inaugurazione, ma ne arrivarono ottomila. Il presidente Giscard, nel suo strano discorso d’apertura, ringraziò persone che non avevano avuto niente a che fare col progetto, e Bordaz non venne neppure menzionato. Durante la visita ufficiale della mostra di Duchamp, Giscard chiese a Hulten la provenienza delle opere, senza tuttavia prestare attenzione alla risposta. Hulten era furente: «Ho accompagnato tre generazioni reali svedesi per il Moderna Museet, e tutti erano ben informati su ciò che stavano guardando».
Il mondo artistico internazionale (un’accezione che comprende mercanti, collezionisti, curatori, critici, parassiti di ogni genere e talvolta un artista o due), reagì in modo molto negativo all’apertura del Beaubourg. Era di moda apprezzare l’architettura dell’edificio e disprezzare il museo. Quasi tutti trovarono che gli ampi spazi interni, con le loro tubature ed altri elementi strutturali in evidenza, generavano un senso di confusione, e quasi nessuno approvò il modo di appendere i quadri. Ma era ormai evidente che la gente di Parigi si andava sempre più affezionando al Beaubourg. Si prevedeva che esso avrebbe attirato fino a 5 mila visitatori al giorno, e forse il doppio durante i week-ends. Ma fin dall’inizio, 20 mila persone al giorno varcarono la sua soglia, salendo a 46 mila di domenica. Per motivi di sicurezza i custodi dovevano limitare il numero di persone su ogni piano, e di conseguenza venne aperta una sola delle 12 entrate con il risultato che lunghe code si formarono all’interno dell’edificio e sul piazzale antistante. Chi lavorava nel Centre, ebbe non poche difficoltà per spostarsi da un piano all’altro.
Il Beaubourg non era preparato a tanta popolarità. I custodi, gli ingegneri, gli addetti alla pulizia non erano sufficienti, ma il budget ridotto non permetteva nuove assunzioni. Nel giro di un mese cominciarono a notarsi impronte sulle sculture, polvere sui quadri e macchie alle pareti. L’edificio si era aperto prima del tempo ed ora rischiava un collasso. Sebbene Rogers e Piano fossero ancora disponibili per i guasti giornalieri, il loro contratto era scaduto; Bordaz si era ritirato e, secondo Rogers, l’edificio aveva bisogno di un anno per la sua perfetta messa a punto. Ma chi vi avrebbe provveduto? Il pubblico, ben diverso dai turisti che affollavano il Louvre, un pubblico allegro, esponente della media borghesia o delle classi lavorative, non accennava a diminuire, e si godeva la vista sensazionale su Parigi offerta dall’ascensore esterno. Prese possesso della biblioteca, entusiasmandosi per i laboratori linguistici ed i supporti audiovisivi. Non mancarono atti di vandalismo, in seguito ai quali alcune apparecchiature dovettero essere sostituite.
Benché la proposta avanzata da Piano e Rogers, sulle attività che il Centre avrebbe dovuto organizzare sulla piazza, non venisse mai attuata, la non prevista presenza di attori ambulanti si rivelò più pittoresca di quanto gli architetti avessero immaginato. Anche sulla piazza, il pubblico si accalcava numeroso, mentre all’interno i cinematografi, le sale per conferenze, le letture poetiche, l’atelier des enfants, dove i bambini erano incoraggiati a svolgere attività creative, erano sempre affollatissimi. Il museo era la parte meno affollata del complesso: il costo del biglietto d’ingresso era di cinque franchi (una battaglia persa da Hulten), mentre per il resto dell’edificio era gratuita. Si calcolava che solo il 15% della folla visitasse il museo, ma questa percentuale arrivava fino a 30 mila persone la settimana e un milione e mezzo all’anno.
Per cinque franchi queste folle non pagavano certo un’informazione, come colleghi di Hulten in altri musei si affrettarono ad evidenziare: le didascalie laconiche, a volte erano fuorvianti (di Jasper Johns si indicavano, in due diverse didascalie, due differenti luoghi di nascita). I gruppi storici erano spesso sacrificati alle sequenze cronologiche. Ma in alcune gallerie della collezione permanente si trovavano opuscoli informativi su artisti e movimenti e numerosi studenti di arte o di storia dell’arte erano a disposizione per chiunque avesse delle domande da fare. Una volta al giorno, si svolgeva una conferenza tenuta non da storici dell’arte: un’idea di Hulten, per portare un fresco e spontaneo punto di vista in materia. Ma per lo più il pubblico rimaneva solo con sé stesso, il principale obiettivo che Hulten si era proposto.
«Occorre dare un’opportunità al dipinto», aveva dichiarato Hulten nel 1977, poco prima di partire per le vacanze, le prime dopo 18 mesi di ininterrotto lavoro. La seconda grande mostra, «Paris-New York», era stata appena inaugurata. «La pittura esiste in Europa da quasi 20 mila anni, e guardando un quadro oggi esso viene recepito esattamente nello stesso modo di quando venne prodotto. Perché mai dovremmo cercare di interferire con quel messaggio fra l’artista e il pubblico? Credo che sia un grave errore, quello dell’accademico che si prefigge un simile compito. Ritengo sia molto difficile aggiungere dati informativi per aiutare la gente a guardare un quadro: sono così frequenti le false informazioni che contribuiscono solo a diminuire ciò che si vede. No, occorre solo aver fiducia nell’opera d’arte, non è nostro compito fornire ragguagli in modo che la gente “entri” nel dipinto. Il messaggio è il dipinto stesso. Io voglio che chi arriva qui guardi semplicemente, perché sono convinto che sia meglio farsi un’impressione erronea, ma personale, che essere spinti da qualcun altro ad osservare in un certo modo. Non vogliamo fare del pubblico degli storici dell’arte, né vogliamo insegnare, ma desideriamo che ciascuno ami ed apprezzi questa bomba che si chiama arte. La qualità in essa insita si recepisce oppure no, ma noi non intendiamo metterla in evidenza».
Questo modo di pensare è ovviamente un’eresia per tutti coloro che identificano l’apprezzamento di un’opera con la sua comprensione. Gli oppositori di Hulten ritengono a volte che il suo approccio populista sia contraddittorio, e che non vi è nulla di più elitario che aspettarsi che colui che vede un’opera d’arte moderna per la prima volta sappia trarne le dovute conclusioni da solo. Si è anche detto che Hulten stesso organizzi mostre storico-artistiche didattiche e di vecchio stampo, e che un’operazione di questo tipo, priva però dei supporti informativi ai quali provvede il MOMA, non fa che aggiungere una nuova confusione al caos già esistente al Beaubourg. C’è un fondo di verità in queste affermazioni: Hulten è sotto molti punti di vista un uomo che nei confronti del museo conserva un atteggiamento molto tradizionale. Nell’estate del 1977 ammise che molte delle idee che aveva in mente circa un nuovo tipo di museo si erano un po’ assopite. Ma nella personalità di Hulten non vi è nulla di dogmatico. Accetta l’osservazione che l’intera nozione di museo, come luogo in cui artista e pubblico entrano in comunicazione, sia alquanto vaga: a quell’epoca non era andato molto oltre, dopo aver invitato Tinguely ed i suoi amici alla creazione del Crocrodrome. Il risultato fu che alcune persone, in gran parte artisti, criticarono Hulten per i suoi favoritismi. Egli continua a preferire la compagnia degli artisti a quella dei curatori, e la sua amicizia con Tinguely ed altri è stata contestata. Altri dicono che Hulten è troppo imparziale verso la pop-art americana. Ma la verità è che, pur essendo stato il primo ad aver organizzato la prima grande mostra in Europa (a Stoccolma) sulla pop-art, egli non ne fu mai veramente entusiasta. Sentiva che durante gli ultimi 50 anni vi era un movimento verso un’arte totalmente nuova, immaterialistica, anti-elitaria, rivolta al comportamento ed agli stati mentali; ma questa concezione, che per lui si era manifestata con forza nelle opere di Tignuely e dell’ultimo Yves Klein, venne seppellita dalla valanga di pubblicità che sommerse il fenomeno pop. Il lato meno commerciale dell’arte forse ora sta riemergendo, e se fosse davvero così, New York potrebbe perdere il suo ruolo dominante.
L’ambizione di Pompidou, quella di fare di Parigi ancora una volta il centro per l’arte contemporanea, non è mai stata presa troppo seriamente da Hulten. L’arte è internazionale, ed il suo centro è ovunque accade qualcosa di interessante; compito del Beaubourg non è di dare prestigio agli artisti francesi. Duchamp diceva che l’artista si aspettava una cosa soltanto dal processo creativo: che colui che osservava, con una sua risposta attiva, completasse il ciclo. Hulten voleva vedere nel Beaubourg un luogo dove questa risposta avviene in modo naturale ed a molteplici livelli. «L’arte non era sempre una faccenda elitaria. L’arte ufficiale del XIX secolo era immensamente popolare, e le folle dei salons sono paragonabili a quelle delle fiere automobilistiche del giorno d’oggi. Ma poi l’arte, che si muove rapidamente, divenne più sofisticata, approfondì le sue ricerche. Con il cubismo, essa perse ogni contatto con l’individuo, fatta eccezione per una cerchia limitata di circa 200 persone. Ma non c’è motivo di pensare che debba essere sempre così. Un’altra cosa: ogni visita ad un museo, è creativa. Un motivo per cui la gente si stanca così tanto nei musei, è perché si richiede uno sforzo enorme per guardare questi oggetti. Certo, alcune volte essi sono disposti in modo tale da rendere la visita inutilmente stancante. Il museo è in realtà una strada assai breve: la gente cammina per tratti ben più lunghi senza stancarsi. Oserei dire che le persone nei musei sono molto più creative di quanto non immaginano. E poi, i musei sono luoghi molto erotici: l’arte tratta spesso di sesso ed è risaputo che i musei sono luoghi ideali per fare conoscenze, e questo è un vantaggio. Sono una banca della memoria di altissimo livello: vedi qualcosa, ti piace o meno, ti identifichi in esso. Si può sognare con i film, perché non nei musei? Anzi, in un museo siamo più liberi, si può camminare da un dipinto all’altro, liberando le proprie alluci nazioni. Il vetro di un quadro, nel quale ci specchiamo, ci invita ad entrare nel mondo di sogno della pittura. Ecco la vera natura dei musei: niente spiegazioni, ma sogno, esaltazione».