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Ignacio Solá Morales (vol. 1/2)

Quanto è vecchia la nuova Spagna? Risponde in questa intervista esclusiva uno dei maggiori osservatori culturali spagnoli, critico e storico dell’architettura e membro del Comitato artistico del Centro Reina Sofìa. Dal “Giornale dell’Arte” n.70, agosto 1989

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Ignacio Solá Morales

Proveniente da una famiglia di illustri architetti di Barcellona, città dove è nato il 24 agosto 1942, Ignacio de Solá-Morales è sicuramente una delle personalità più brillanti della cultura contemporanea spagnola. Laureato in architettura ed in filosofia, ha svolto la sua attività principalmente nel campo della teoria e della storia dell’architettura, pubblicando diversi testi, tra i quali citiamo «Vanguardia y Eclecticismo», «Gaudi», «Arquitectura Balnearia», «Architettura minimale a Barcellona», «Contemporary Spanish Archi-tecture».

Parallelamente non ha tralasciato, soprattutto in collaborazione, l’attività di progettista realizzando diversi edifici a Barcellona e in Catalogna. È stato professore di Estetica presso la Facoltà di Filosofia di Barcellona e di Storia dell’architettura contemporanea nel dipartimento di Storia dell’arte presso la Facoltà di Storia. Ora è professore di composizione all’Escuela de Arquitectura di Barcellona. Visiting professor all’Università di Columbia nel 1980-’81, al D.A.M.S. di Bologna nel 1985-’86, al Politecnico di Torino nel 1986-’87, tiene con frequenza conferenze nelle Università di tutto il mondo. E membro del comitato direttivo del Centro de Arte Reina Sofia di Madrid e del Institut d’Humanitats di Barcellona.

Potremmo cominciare con qualche notizia biografica, a proposito della sua formazione, con qualche accenno sulla sua famiglia, una famiglia di architetti affermati.

Sono cresciuto in un ambiente di professionisti, in una atmosfera abbastanza vivace. Ho un padre architetto, Manuel Solà-Morales che è stato direttore della Scuola di Architettura di Barcellona e cattedratico di Scienze delle Costruzioni per molti anni; a Barcellona ha svolto un’attività importante non solo come architetto, ma anche come responsabile dell’organizzazione dell’Ordine degli Architetti, per il cui edificio Picasso fece un famoso murale assai polemico. Anche mio nonno materno era architetto, si chiamava Juan Rubioi Bellrer, fu collaboratore di Gaudi e poi professionista per conto suo; lo ricordo mentre dipingeva acquerelli quando era già molto vecchio, e raccontava le sue storie e le sue esperienze di quando costruiva edifici abbastanza notevoli a Barcellona e nel resto della Catalogna.

Non c’è stato anche uno zio architetto che viaggiò in Africa ed ebbe una vita assai avventurosa…

Si, era lo zio Nicolau Rubió i Tuduri. Era un dandy molto avventuroso con una formazione internazionale che scriveva un po’ di tutto: dalla politica alla letteratura, ai romanzi, alle relazioni di viaggi. Lo zio Nicolau era un personaggio affascinante. Ricordo quando andavo a trovarlo a casa dei miei nonni il giorno di Natale: era sempre un divertimento sentirlo raccontare storie ed aneddoti.

La sua formazione è avvenuta ancora durante il periodo franchista e non si limitò all’architettura

Quando incominciai a studiare architettura, scoprii che mi interessava anche per gli argomenti più generali, come il pensiero, le riflessioni, la teoria e questo mi portò a conseguire anche una laurea nella Facoltà di Filosofia. La mia vera formazione universitaria avvenne però nella scuola di Architettura, dove ebbi alcuni professori che influirono moltissimo su di me; ricordo, ad esempio, l’architetto José Antonio Coderch professore di progettazione negli ultimi anni universitari e Josep Ma Sostres professore di storia al quale devo senza dubbio il mio interesse per la Storia dell’Architettura. Ma i miei interessi furono rivolti verso temi più teorici e speculativi grazie ad un maestro, José Maria Valverde, il quale è stato un importante professore di Estetica nella Facoltà di Filosofia. È con lui che iniziai ad interessarmi ai temi del pensiero. I miei studi furono accompagnati da una attività politica di opposizione al regime, per noi in quel momento importantissima, e dall’organizzazione di ogni tipo di contestazione.

Fra le molte cose che riuscimmo a fare, ci fu l’organizzazione di un famoso «sindacato autonomo di studenti», allora proibito, che fu poi causa di severe pene tanto che mi obbligarono a ripetere il servizio militare come una sorta di castigo dissimulato; penso che l’impatto con ciò che allora chiamavamo compromesso politico fu per me in quegli anni veramente molto importante. Io credo che in me abbiano influito da una parte l’attività universitaria e dall’altra la vocazione, come architetto, di tenere sempre una porta aperta all’attività propriamente progettuale, in collaborazione o talvolta da solo. Da quando sono architetto non ho smesso di avere una esperienza pratica di progettazione e anche di costruzione; sono orgoglioso non solo di aver scritto e di avere operato nel campo della storia dell’architettura, della critica ecc…, ma anche di avere riservato sempre uno spazio per l’esperienza più pratica di quello che è essere o fare l’architetto.

Durante gli anni della dittatura, la Spagna ma direi soprattutto Barcellona e la Catalogna hanno vissuto momenti molto vivaci nell’arte e nell’architettura. L’isolamento era forse provocato più dal rifiuto degli stranieri di visitare un paese in cui il regime non consentiva la libera opinione che dalla volontà degli spagnoli stessi di chiudersi all’esterno. Il cambiamento che è avvenuto in realtà parte da più lontano, soprattutto nell’architettura, anche perché la pittura e la scultura avevano sempre mantenuto una più o meno libera circolazione nel sistema dell’arte internazionale.

Credo che questo cambiamento sia avvenuto subito, con l’avvento delle nuove condizioni politiche, ma che dal punto di vista culturale esso sia stato molto lento. In una tavola rotonda che si tenne a Roma un anno fa tra architetti di Barcellona e architetti romani, Carlo Aymonino, che conosce molto bene la situazione spagnola, spiegò che gli architetti spagnoli vent’anni fa sapevano di più degli architetti italiani perché erano più curiosi, si informavano su tutto e questa curiosità col tempo ha formato un’attitudine spagnola aperta verso l’esterno e una cultura né provinciale né locale. In questo momento ci troviamo di fronte ad una crisi delle egemonie, sono in crisi i grandi centri europei della cultura contemporanea mentre certi centri periferici stanno suscitando più interesse nell’arte come nella letteratura. La situazione è critica nel centro ma non nella periferia. Questo fa sì che ci interessiamo di operazioni o tradizioni che non appartengono alla linea ortodossa della tradizione del XX secolo, ma che scaturiscono da aree culturali con una storia più autonoma.

Nel caso della Spagna come si è realizzato questo cambiamento? Quali sono stati i processi nel campo dell’arte negli ultimi 10-15 anni?

Un tempo esisteva un rifiuto della Spagna a causa della dittatura di Franco: invece era importante andare in Spagna per farci conoscere e far conoscere agli spagnoli altre situazioni. Credo che la cultura europea, fino al maggio del ’68, è stata segnata da una visione diciamo manichea scaturita dal periodo postbellico, ovvero dopo la Seconda guerra mondiale i buoni erano i vincitori, i cattivi i perdenti. A questa situazione si aggiungevano i Paesi socialisti, anch’essi rifiutati. Allora la Spagna si trovava tra i perdenti; mentre Mussolini e Hitler erano scomparsi, in Spagna e Portogallo rimanevano queste specie di reliquie storiche che si chiamavano Franco e Salazar. In Europa ciò era visto come un cliché ma eravamo molto irritati perché determinava una grande incomunicabilità e perfino noi progressisti ci sentivamo sia pur fraternamente compatiti. Ma questa condizione culturale, benché non tutelata dall’apparato franchista, con pochi mezzi, senza potere nell’amministrazione, nella stampa e in altri campi, continuava ugualmente ad insistere, e sono convinto che negli ultimi anni della dittatura le condizioni culturali non fossero tanto diverse, come si pensa in Europa, dalle attuali.

Se guardiamo infatti l’elenco degli architetti o dei pittori che interessano oggi, viene da pensare che molti, negli anni ’60, facevano delle opere non tanto diverse dalle attuali. Da un punto di vista culturale non è poi così vero che prima e dopo il 1975 le cose siano completamente diverse. Se pensiamo a pittori come Tàpies, Gordillo, Antonio Saura o all’opera tarda di Miró, vediamo che questo si faceva già nel periodo della dittatura. Anche l’Equipo Cronica o Rafael Moneo e altri hanno prodotto un’opera consistente e importante non solo a partire dal 1975.

Con la fine della dittatura cambiano le condizioni: in primo luogo perché scompare il marchio sgradevole, antipatico e repellente che la dittatura ha dato alla Spagna; in secondo luogo, perché questi stessi personaggi si trovano in una condizione molto più favorevole in quanto vengono invitati alle esposizioni, ottengono incarichi importanti, passano da piccoli circoli privati e modesti clienti a realizzare rilevanti opere pubbliche. Ma io non sono convinto che la storia della cultura spagnola prima e dopo il 1975 sia stata quella di un cambiamento radicale. La situazione molto depressa, critica, della cultura europea era legata alla crisi economica ed agli insuccessi della grande diplomazia nelle politiche locali, come ad esempio la guerra del Vietnam e del medio-Oriente.

Al contrario la Spagna in quel momento viveva un suo ottimismo per ragioni interne, che contrastava col pessimismo che si riscontrava in Francia, in Italia o in Inghilterra. L’esplosione della cultura spagnola di cui tutto il mondo parla si è prodotta in uno dei momenti più critici dell’economia europea, e anche spagnola, con più di un milione di disoccupati, ma, nonostante ciò, qui sono state fatte molte più cose, si è verificato un incremento di entusiasmo che non esisteva altrove in Europa. È questo che ha suscitato l’interesse di altri Paesi e tutto ciò continua a verificarsi.

La Spagna ora usufruisce dell’onda lunga dell’entusiasmo. Ma una volta finito questo effetto propellente, non teme una sua integrazione nel cinismo culturale internazionale, una sua omogeneizzazione fino a smarrire i suoi caratteri peculiari, la sua identità spagnola?

Credo che quest’analisi sia un po’ fatalista. Credo che la Spagna nonostante tutto possieda energie differenziali che diventano positive. È ancora un paese di differenze e con una densità etnica abbastanza importante, di cui si può rendere conto più uno straniero che un osservatore interno. Inoltre, possiede certe caratteristiche di tendenza all’esagerazione, un gusto per accettare un certo tipo di fantasia, un senso forte del colore, mentre al contrario possiede poca attenzione verso le attitudini più intellettualizzate e speculative. Credo che l’arte e la cultura spagnola siano molto più passionali ed intense, senza che per questo si cada nel topico delle castanuelas e di questo genere di cose. C’è ancora molto individualismo e una formalizzazione di pulsioni quasi viscerali. Se pensiamo alla letteratura spagnola più recente, che è un fenomeno abbastanza interessante vediamo che è pur sempre una letteratura «spagnola», dove i due temi della fantasia e della passione sono molto importanti, dove l’immaginario passa davanti al razionale e un certo gusto quasi espressionista domina su una passione formalizzatrice e ordinatrice.

Questo succede nella letteratura, ma anche nell’architettura e nella pittura in una forma simile. Credo che alla fine si scopra che fra l’architettura di Moneo e i romanzi di Juan Benet esiste qualche relazione segreta, perché esiste uno stesso ambito culturale. Credo che ci troviamo in un momento di fantasia, di ironia e di sdoppiamento e in particolare nella pittura spagnola più interessante quello che prevale è questo sentimento ironico, velato di una sottile e acida critica sulle cose. Negli anni della dittatura la situazione era molto più esasperata, la strumentalizzazione dell’arte più chiara.

Uno scrittore brillante, Manuel Vasquez Montalvan che è anche un giornalista molto letto in Spagna, inventò immediatamente dopo la fine della dittatura una frase che diventò famosa: «Con Franco vivevamo meglio». Voleva dire che con Franco la cultura progressista aveva un obiettivo molto chiaro e semplice. Oggi invece gli obiettivi sono molto più complessi e la pluralità dei partiti politici fa sì che ci siano numerose sfumature e differenze. Prima si era o franchisti o antifranchisti.

Quali sono stati gli eventi artistici più importanti in Spagna negli ultimi anni?

Nel campo delle arti plastiche ciò che mi pare più interessante nella produzione spagnola degli ultimi dieci anni è l’opera di alcuni scultori: in primo luogo la rivalutazione di due grandi figure che sono Jorge Oteiza e Chillida; in seguito, lo sviluppo di tutta l’attività plastica formale nel campo della scultura la quale ha dato risultati abbastanza interessanti fino al punto che non pochi pittori si sono avventurati nel terreno della scultura. Un altro campo importante è la produzione letteraria; è più limitata, perché il castigliano in Europa è poco conosciuto, però le traduzioni hanno dato un buon aiuto e si è verificato un piccolo boom della letteratura spagnola che ha seguito il boom della letteratura latino-americana, la quale era diventata importante negli anni ’70 grazie ad autori come Garcia Márquez, Vargas Llosa ed altri.

In questo momento ci sono una mezza dozzina di scrittori che hanno superato l’ambito locale e vengono tradotti nelle varie lingue colte come il francese, l’inglese, il tedesco e l’italiano. Un altro campo che ha dato risultati interessanti è certamente quello dell’architettura dove si sono dati appuntamento tre fattori: in primo luogo una tradizione propria molto legata al lavoro dell’architetto inteso come costruttore, cioè di uomo che possiede una concezione globale e ampia del suo lavoro, ma sempre fortemente legato alla sua pratica; l’architetto in Spagna, molto più che negli altri paesi europei, sa che il suo destino è costruire edifici; egli è più staccato dalla discussione generale sui modelli, sulla teoria che in Spagna è relativamente limitata.

Un architetto spagnolo qualificato è una persona che non solo sa fare un progetto, ma sa anche bene come si costruisce un edificio; ha una formazione tecnica, una pratica e trascorre molte ore sì nel suo studio ma anche nel cantiere. La prima caratteristica è dunque quella di una architettura molto segnata dalla sua forma fisica finale, e ciò attribuisce all’opera compiuta valori di sensualità, di qualità e di significato, a differenza ad esempio della grande architettura americana, che è assai più impressionante, ma molto più astratta.

Una seconda caratteristica è costituita dal fatto che l’architettura spagnola si è prodotta come reazione violenta alla smisurata speculazione edilizia degli ultimi anni della dittatura: ne è scaturita un’architettura enormemente sensibile alle condizioni dell’ambiente esistente, della tradizione, dei valori delle aree storiche, del paesaggio.

Infine, una terza caratteristica, che considero importante, consiste in una certa fedeltà in molti casi ad una tradizione moderna, ma vista a distanza. In Europa, e ancor di più negli Stati Uniti, durante gli anni ’70 sono stati prodotti grandi gesti retorici di rifiuto della tradizione moderna. Il cosiddetto movimento, gusto o corrente postmoderno è stato il grande gesto di negazione della tradizione dell’architettura moderna. In Spagna, poiché questa tradizione non era stata tanto forte, né tanto militante, anzi abusiva, questi gesti furono assai meno intensi ad eccezione di alcuni casi.

L’architettura spagnola non ha avuto la necessità di ribellarsi contro i suoi padri, mentre gli architetti del postmoderno americani o di alcuni paesi europei hanno dovuto «assassinare il padre», come si dice nel linguaggio freudiano. L’architettura spagnola degli ultimi 10-15 anni è meno ossessionata nel negare la tradizione moderna e nell’affermare un ritorno al classicismo. Si potrebbe dire che l’architettura spagnola è più tranquilla.

Vuoi dire che in Spagna la cosiddetta avanguardia è più «moderna» che altrove?

In Spagna il nuovo viene chiamato moderno; ad esempio, Tàpies appartiene da sempre alla tradizione moderna o alla neoavanguardia, se si vuol usare un termine più appropriato. Le avanguardie dell’arte europea sono le avanguardie degli anni ’20; in seguito, negli anni ’60 un fenomeno diffuso, non specificamente spagnolo, produsse una specie di revival dell’attitudine avanguardista, incentrato sull’idea che l’innovazione artistica era una via anche di innovazione sociale, la promessa di un mondo più ordinato, più felice e socialmente più giusto. Quanto si verifica oggi nel campo dell’arte, della creazione letteraria e dell’architettura; invece, viene giustificato soprattutto attraverso un insieme di ragioni biografiche, di gusto personale, di confronti fra se stessi e la situazione oggettiva della società, più che con programmi globali, collettivi nei quali bisogna aggirarsi come ci si trovasse in un movimento di liberazione o qualcosa di simile.

Poco tempo fa Lei è entrato nel Consiglio Direttivo del Centro d’Arte Reina Sofia, che si sta occupando della formazione della collezione di arte moderna spagnola. Vuole descrivere questo progetto?

Il Centro d’Arte Reina Sofia, del cui patronato faccio parte è probabilmente l’iniziativa più potente in Spagna della necessità avvertita da molti paesi di avere musei di cultura o d’arte contemporanea. Dico questo perché il Centro Reina Sofia conterà probabilmente su un appoggio molto forte dell’amministrazione pubblica e con ogni probabilità sarà il nostro museo d’arte moderna più importante entro qualche anno. Voglio segnalare che iniziative di questo tipo sono state prese anche a Valencia, in un modo abbastanza felice (infatti è da poco stato inaugurato l’IVAM), a Santiago de Compostela, a Barcellona e a Bilbao. C’è la sensazione che la cultura spagnola intenda recuperare il tempo perduto. Nello stesso modo in cui negli ultimi dieci anni si è sentito l’obbligo di organizzare più concerti, più conferenze, di invitare personalità straniere, di vedere le esposizioni monografiche dei grandi artisti del XX secolo, così è nata anche la necessità di avere un importante museo d’arte contemporanea. Inoltre, la cultura spagnola avverte che nell’arte del XX secolo ci sono perlomeno una dozzina di artisti spagnoli, più o meno vincolati alla Spagna o ai grandi centri come Parigi, New York, ecc…, ma che bisogna riconsiderare da un punto di vista spagnolo.

Il Centro Reina Sofia dovrà essere un museo spagnolo d’arte moderna e non un museo d’arte moderna spagnola. Non sarà esclusivamente un museo di pittori spagnoli, anche se alcuni nomi, non molti però, della pittura spagnola avranno un peso importante. In fondo il progetto del Centro Reina Sofia consiste, attraverso una collezione in una politica di esposizioni e nello spiegare come è stata vista da parte della Spagna l’esperienza dell’arte del
XX secolo. Appesi alle pareti di questo edificio di Madrid, al massimo il 50% saranno spagnoli ma accanto ad essi ci dovranno essere anche i grandi pittori stranieri.

Tuttavia, la nostra idea non è tanto quella di fare una rassegna della storia dell’arte del XX secolo, quanto la ricostruzione dal punto di vista spagnolo della storia di quella che è stata l’avventura della nostra epoca. Per l’arte spagnola, alcune esperienze si sono prodotte in relazione alla creazione europea o americana; alcuni temi sono stati importanti e altri meno: per noi infatti sono stati importanti il surrealismo, l’informale e il cubismo; non sono stati invece importanti il dadaismo, l’arte concettuale e il purismo.

Da noi svolgono un ruolo importante sia alcuni nomi come Gris, Picasso, Miró, Dalí e Tàpies, ma anche moltissimi altri nomi della pittura francese, inglese, italiana o americana. Siamo convinti che nel 1989 non ha nessun senso parlare di arte nazionale; non esiste una pura arte spagnola nel senso che la comunicazione e l’interscambio sono stati assai forti e molti artisti spagnoli sono stati vicinissimi ad artisti tedeschi o di New York. Il progetto del museo non è né la rabbiosa attualità, né mostrare la sorpresa delle tendenze degli ultimi dieci anni e non è nemmeno il progetto di un museo nazionale, nel senso di trovarvi riunite le grandi figure spagnole, ma è il grande contesto internazionale che invece è fondamentale. Spiegare Mirò senza spiegare il surrealismo di Parigi dal 1927 al 1935 non avrebbe molto senso. E così spiegare Picasso senza Braque, e l’informale di Tàpies o di Saura senza illustrare quello che succedeva a Parigi o a New York contemporaneamente, non avrebbe alcun senso.

Manuel Solà-Morales

Nicolau Maria Rubió i Tudurí