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Mies van der Rohe e il neo – moderno

Dal 10 febbraio al 22 aprile 1986, il MOMA presenta circa 300 disegni, oltre a mobili, disegni di mobili, modelli e fotografie dei progetti più celebri di Mie svan der Rohe. La mostra che  segna l’avvento del neomoderno. Per il post-moderno è l’inizio della fine? Dal “Giornale dell’Arte” n. 31, febbraio 1986

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Ludwig Mies van der Rohe, Concert Hall project (Interior perspective), collage 1942. Photographic Archive. The Museum of Modern Art Archives, New York

«Il fatto che moltissimi dei cosiddetti architetti moderni continuino ad esercitare la professione come se il moderno fosse vivo può essere considerata una delle maggiori curiosità del nostro tempo» scriveva il critico Charles Jencks nel 1977; per lui, l’architettura moderna si era esaurita del tutto e per sempre. Jencks non era l’unico a pensarla così. Numerosi critici hanno parlato nel corso dell’ultimo decennio di fine, di crollo, di sconvolgimento, di morte del moderno. Qualunque metafora si scegliesse, il messaggio era lo stesso – l’era dell’architettura moderna si è conclusa.

Sotto molti aspetti è, senza dubbio, vero. Il moderno nelle sue varie forme non avrà più, almeno nel nostro tempo, il potere sugli impulsi creativi dell’epoca che esercitava nei primi 60 anni del secolo. In quest’ultimo periodo è però emerso che il moderno non è morto, quanto piuttosto trasformato, e sotto sembianze diverse continua ad occupare una posizione nell’architettura contemporanea non lontana dall’essere la dominante. L’ideologia moderna non riveste più il significato di un tempo, e gli edifici moderni non si modellano sulle stesse forme, ma un nuovo moderno sembra rinascere alla ribalta della scena architettonica.

Sono molte le indicazioni in questa direzione e tutte vanno oltre l’attività continuativa di certi architetti come I.M. Pei, Edward Larrabee Barnes e Richard Meier, professionisti illustri che hanno lavorato a lungo col linguaggio moderno, persistendo anche quando il terreno ideologico che era alla base delle loro opere ha cominciato a franare. È infatti interessante notare che alcuni dei migliori architetti più giovani, come Stephen Holl, Bernard Tschumi, Tod Williams e George Ranalli, abbiano scelto di rifuggire dal ritorno dell’interpretazione storica che è oggi così comune. Invece di essere post-moderni, cercano di dilatare il vocabolario moderno. L’impulso verso una rinascita del sentimento moderno sarà sicuramente rafforzato dalla mostra che il Museum of Modern Art ha in programma per febbraio per il centenario della nascita di Ludwig Mies van der Rohe.

Un avvenimento importante annunciato come la retrospettiva più completa mai allestita dell’opera di questo maestro moderno, ed ha già stimolato la produzione di numerosi libri sul grande architetto dello Stile Internazionale; l’effetto di tutto ciò sarà sicuramente riabilitare Mies, il cui significato è stato un poco oscurato negli anni recenti, all’avanguardia della coscienza architettonica.
Altrettanto rilevante è la decisa opposizione al progetto del Whitney Museum di alterare ed oscurare sezioni dell’edificio disegnato da Marcel Breuer – un vero e proprio monumento moderno – con un ampliamento del tutto differente, post-moderno, di Michael Graves. È in atto una campagna anti-Graves che ha quasi raggiunto punte d’isterismo, e il tono è quello di una appassionata difesa dell’architettura moderna così com’è rappresentata dalla costruzione originaria.

Non si è invece verificato tanto scalpore circa il progetto del Guggenheim Museum di alterare ed espandere l’edificio di Frank Lloyd Wright, ed è lecito domandarsi se la ragione non sia che l’architetto del Guggenheim, la Gwathmay Siegel & Associates, abbia proposto un ampliamento moderno e non post-moderno. Non è certo l’orientamento di Wright, è più uno stile Internazionale, ma è pur sempre un’opera moderna.

Il moderno che oggi è tornato sulla scena (ma bisognerebbe dire che non l’ha mai lasciata a dispetto delle opinioni di alcuni critici) assume forme nient’affatto simili a quelle possedute in precedenza. L’attuale ondata d’interesse per il moderno non ha nulla della forza morale dell’originaria rivoluzione moderna, nessuna delle certezze che lo identificavano: con lo stile che avrebbe trasformato il mondo. Il neomoderno, se così si può definire, è estetico, non etico; intende celebrare l’apparenza, non il significato, del moderno.
Il moderno ortodosso era uno stile di edifici, austeri, puri, freddi, le cui migliori espressioni sono esemplificate dalle scatole di vetro e dalle case dai tetti piatti del dopoguerra. Negli esempi più significativi, è sorprendentemente bello, ma è la bellezza dell’essenzialità, non dell’eccesso. Il neomoderno che si incomincia a vedere è meno pulito; si potrebbe anche chiamarlo una specie di moderno barocco, pieno di superfici complesse e di spazi intricati che usano il vocabolario del design del movimento moderno a scopi manieristici.

L’ultima opera neomoderna, in ordine di tempo, potrebbe essere il progetto di Bernard Tschumi per il Parc de la Villette a Parigi, in cui poche strutture moderne diventano costruzioni fantastiche. Il moderno ortodosso, nell’Europa dei primi vent’anni del secolo, era un’utopia; un sogno carico di valenze sociali quanto estetiche. Voleva allontanarsi dalla storia, non farne parte. Le forme nette volevano simboleggiare non solo le nuove possibilità tecnologiche, ma la nascita di una società nuova, egualitaria. Il movimento moderno era stato concepito come reazione alla cultura borghese, tuttavia non cercava di alzarsi al di sopra di quella, quanto piuttosto di cambiarla.

La grande ironia del moderno è che rafforzò la sua personalità in tutto il mondo non accettando quell’ideologia utopica ma rifiutandola: non fu infatti l’imperativo morale che rese il moderno quasi universalmente commerciale dopo la II guerra mondiale, ma fu la possibilità di essere replicato rapidamente e a basso costo, e fu il fascino di quelle forme austere sulla società in rapido sviluppo che ne decretò il successo. Alla metà degli anni ’50 gli edifici moderni più comuni erano torri di uffici e parchi aziendali suburbani.

Un fenomeno parallelo, ma non identico, si è verificato nel campo delle arti visive, dove negli anni ’70 le opere eroiche dell’Espressionismo astratto, l’equivalente in pittura dei grandi capolavori d’architettura moderna, sembravano già pezzi di storia dell’arte. Diventava sempre più difficile sostenere che tali opere fossero d’avanguardia, e fu forse per questo che i lavori degli artisti più giovani assunsero forme molto meno astratte. Non sorprende allora che anche in architettura, come nell’arte, le menti più inquiete incominciassero a guardare altrove, lontano dal moderno. In architettura la crisi del moderno fu assai più grave che nell’arte, visto che il corpo dell’architettura moderna non consisteva solo di grandi capolavori che sembravano ormai inglobati nella storia, ma anche di uno squallido panorama di strutture mediocri, crude.

In arte, le imitazioni di second’ordine sono irrilevanti; in architettura sono di un’importanza pericolosa, poiché danno forma al mondo che ci circonda, con un’impronta più decisa rispetto ad altre opere. E il fallimento del linguaggio moderno è sicuramente stato più clamoroso in architettura: lo squallore di luoghi come la Terza Strada a New York e la Défense a Parigi decretarono l’architettura moderna non solo esaurita, ma senza valore.

Alla fine degli anni ’60 era nata un’architettura di reazione al moderno. Robert Venturi, Charles Moore, Philip Johnson e Robert A.M. Stern, per citare solo alcuni dei professionisti del post-moderno, in pochi anni avevano stabilito un modello di architettura basata sul rifiuto dei segni visivi caratteristici del post-moderno. Nel 1977, quando Jencks scriveva della fine del moderno, non sembrava in effetti esistere più alcuna linfa vitale all’interno di quel vocabolario.

Molti architetti e critici postmoderni davano per scontato che l’ideologia e l’estetica del moderno fossero inevitabilmente indissociabili e che sarebbero entrambe scomparse prestissimo visto che da tempo percorrevano strade differenti. La forza morale del moderno era venuta meno; rimaneva l’estetica, ma priva di bagaglio ideologico. Operante autonomamente, quell’estetica continuava però ad essere un codice secondo cui gli edifici venivano costruiti, seppure in una sorta di vuoto ideologico.

E così è ancora oggi: più una pura estetica che un’ideologia, che nonostante tutto continua a produrre architettura di rilievo. Il lavoro di architetti come Frank Gehry, Charles Gwathmay e Robert Siegel, Richard Meier, Mario Botta e Cesar Pelli tra gli altri, è certamente una ricerca all’interno di tematiche estetiche moderne: superficie, spazio e forma astratta. Il neomoderno della metà degli anni ’80 non assomiglia al moderno della generazione precedente. Di gran lunga più interessato alle questioni estetiche che al loro significato sociale, è più manierato, visivamente più complesso di gran parte del primo moderno: il lavoro di Meier ne è prova evidente. È anche più mellifluo poiché tende, specialmente nelle mani di architetti come Pelli, Kevin Roche e Helmut Jahn, a celebrare l’abilità della tecnologia moderna a creare insolite superfici in vetro.

Nel diventare un’architettura d’apparenza più che l’architettura di un sistema di valori, il moderno ha curiosamente assunto quelle stesse caratteristiche che moltissimi moderni della vecchia guardia criticano al post-moderno. In nessuno dei due casi esiste uno spiccato senso di missione architettonica: se qualcosa denota l’architettura del nostro tempo, moderna e post-moderna allo stesso modo, questo è l’attenzione a quelli che potremmo definire temi formali, la preoccupazione per l’aspetto delle cose e non per ciò che esse significano. Il moderno in quanto forza vitale si è esaurito; si giocò molta della sua rivendicazione all’autorità morale quando divenne uno stile societario.

L’architettura moderna prodotta oggi ha effettive, seppur sottili, differenze da quella di pochi anni fa: si fa forte di una nuova fiducia in se stessa, ai limiti della spacconeria, che io sospetto derivi da una reazione generale ad alcuni degli eccessi del post-moderno.
Tutto ciò non significa che ci stiamo allontanando dal postmoderno, ma da un anno circa assistiamo ad un orientamento verso un design più rigoroso, meno ansioso e petulante, e se l’attuale interesse verso il moderno continua, sicuramente infonderà ulteriore semplicità e immediatezza anche in quell’architettura che sta facendo diventare storia.

In questo senso, la retrospettiva di Mies van der Rohe assume particolare importanza, poiché Mies era, tutto sommato, il moderno meno ideologico di tutti. Provava relativamente scarso interesse per la teoria, e i suoi edifici erano dichiarazioni definitive sullo spazio e sulla forma puri, non sui più ampi temi dell’ideologia moderna. Chi ha studiato Mies ha osservato per anni come le sue costruzioni a detta di tutti estremamente razionali, non lo siano poi così tanto; le travi a doppia T all’esterno del Seagram Building per esempio sono solo decorative. Data la possibilità di scelta tra bellezza e verità, invariabilmente sceglieva la bellezza; e così diede il la, inconsapevolmente, al neo-moderno che sta emergendo intorno al suo centenario.

Paul Goldberger
© New York Times

Mies van der Rohe, ph. Helen Balfour Morrison, c.1947. Photographic Archive. The Museum of Modern Art Archives, New York

Mies van der Rohe, photograph by William Leftwich. Photographic Archive. The Museum of Modern Art Archives, New York

Ludwig Mies van der Rohe. New National Gallery, Berlin, Germany (Interior perspective). collage, c.1962–1968, Photographic Archive. The Museum of Modern Art Archives, New York

Ludwig Mies van der Rohe, Resor House project, Jackson Hole, Wyoming (Interior perspective of living room and south glass wall), collage 1939, Photographic Archive. The Museum of Modern Art Archives, New York

Ludwig Mies van der Rohe, Convention Hall Project, Chicago, Illinois (Preliminary version: interior perspective) collage 1954, Photographic Archive. The Museum of Modern Art Archives, New York