Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Il 7 novembre 1929 si apriva la prima mostra del Museum of Modern Art di New York in Fifth Avenue,che 10 anni dopo si sarebbe trasferito sulla West Street. Barr fu il primo direttore del Moma, carica che resse per 14 anni. Dal “Giornale dell’Arte” n. 72, ottobre 1989
Paul Cézanne, «Stili Life with ap-ples»,1895-98; Paul Gauguin, «Portrait of Meyer de Haan», 1889; Georges Seurat «Port-en-Bessin, En-trance to the Harbor», 1888; Vincent van Gogh, «Starry Night» 1889; oggi come sessan-t’anni or sono, nello stesso ordine, il Museum of Modern Art di New York accoglie il visitatore con la medesima sequenza di capolavori. Aggiungiamo «Les demoiselles d’Avignon», un regalo di compleanno che si fece il Moma nel 1939, dopo che il dipinto era stato esposto da Seligmann nella 51 East Street nel maggio 1939: il quadro, dieci anni prima, aveva favorevolmente «traumatizzato» A. Conger Goodyear, presidente e amministratore del Moma in visita a Parigi alla collezione Doucet e, in occasione della mostra newyorkese, il primo direttore del museo, Alfred H. Barr jr. lo aveva definito «il dipinto più importante del XX secolo», pregando il comitato direttivo del Moma di procedere all’acquisto, ratificato (ma allora per simili questioni i tempi erano assai più brevi) nel dicembre dello stesso anno.
E aggiungiamo ancora «La dance» di Matisse e «Broadway Boogie Woogie» di Mondrian: avremo allora quella «spina dorsale» (solidissima) attorno alla quale l’appena ventisettenne direttore si accingeva a costruire una raccolta destinata a superare i centomila pezzi (fotografie, stampe e disegni compresi). Cézanne, Gauguin, Seurat e van Gogh erano stati scelti, dopo molte discussioni, per la prima mostra del Moma, inaugurata il 7 novembre 1929 al dodicesimo piano dell’Hecksher Building, 730 Fifth Avenue.
Barr, che era stato segnalato al consiglio d’amministrazione del neonato Moma da parte di uno dei trustees fondatori, Paul J. Sachs, dimostrava già allora di avere idee assai chiare su allestimenti e collezioni. Aveva alle spalle studi a Princeton, dove si era laureato nel ’22, e una specializzazione a Harvard, oltre a tre anni come Associate Professor al Wellesley College, dedicati interamente all’insegnamento della storia dell’arte moderna attraverso un approccio che oggi diremmo multimediale, ampliando i programmi di studio dalla pittura e scultura sino alla fotografia, all’architettura, all’industriai design, al teatro, al cinema; gli stessi criteri che avrebbe adottato in 14 anni di direzione al Moma, dal 1929 al 1943: sognava un museo-laboratorio.
Fondato da sei privati cittadini, il Moma aveva trovato un direttore pienamente in linea con l’idea di dotare New York del «più grande museo d’arte moderna del mondo»; qui bisognava incentivare il visitatore, e fornirlo di ausili nel non facile approccio con le avanguardie, con mostre temporanee supportate da sussidi audiovisivi, dibattiti e conferenze. Il cordone ombelicale con la città passava attraverso i primi «Education Programs»: nel ’37 viene varato da Barr il New York City Public High School Program, che prevedeva la visita annuale di 121 scuole della città. Ben presto le sei sale della sede in Manhattan si rivelarono insufficienti all’esposizione ed alla conservazione di una collezione che, partita da una donazione di otto stampe e un disegno, andava dilatandosi insieme con il favore che il museo riscuoteva nella città. Il consiglio di amministrazione del Moma, in previsione di un nuovo edificio, scelse un’area sulla West Street, proprio di fronte alla residenza di Rockefeller, affidando il progetto ad uno dei trustees, l’architetto Philip Goodwin.
Barr, con la consueta perspicacia, caldeggiò, almeno nelle vesti di consigliere, il coinvolgimento nell’impresa di Mies van der Rohe. Nella primavera nel ’38 era pronto il progetto definitivo: la luce affluisce nelle gallerie del Moma attraverso enormi finestre in Thermolux, un materiale allora sperimentale che favorisce una corretta diffusione luminosa, mentre l’insistito ritmo orizzontale della facciata crea un piacevole contrasto con l’abbraccio verticale, sullo sfondo, di sei grattacieli costruiti nel 1930 da George Howe e William Lescaze. All’interno, grande sfoggio di marmi neri e pannelli in legno biondo; sul terrazzo, al sesto piano, lo Sculpture Garden, oggetto di una recente ristrutturazione.
Alle successive addizioni avrebbe lavorato, dal ’53 al ’61, Philip Johnson. Il 10 maggio 1939 il nuovo Moma apre le sale al pubblico con un altro capolavoro di Barr, la mostra intitolata «L’arte del nostro tempo». Il giovane direttore aveva, in quei dieci anni, definito chiaramente la linea del suo museo, improntata ad un’autentica devozione per il modernismo, analizzato nei suoi molteplici aspetti e problematiche: nella vecchia sede di Manhattan aveva organizzato, nel ’32, una esposizione dedicata all’architettura modernista; del ’34 è la mostra sul «macchinismo» («Machine Art»); «African Negro Art» è allestita l’anno successivo, mentre nel ’37 Barr fa il punto sulla storia della fotografia, abbracciando in una memorabile rassegna, gli anni dal 1839 al 1937; Cubismo e Astrattismo, Dada e Surrealismo erano stati gli argomenti di due esposizioni del ’36, mentre per le grandi monografiche, Barr sceglie Matisse nel ’31, Hopper nel ’33, van Gogh nel ’35 e ancora il grande amore Picasso (del ’46 è un suo saggio, Picasso: fifty years of His Art), proposto nel 1939.
Lasciata la direzione nel ’43, Barr è a capo per tre anni il Dipartimento Pittura e Scultura, per assumere poi la responsabilità del Dipartimento raccolte e collezioni del Moma. La politica di acquisizioni di Barr, acclamato da John Canaday del «New York Times» quale «il più potente conoscitore d’arte moderna in America e probabilmente del mondo» si basa su pochi, elementari principi, esposti nel ’67 in un questionario pubblicato da «Saturday Review»: «Assicurarsi i lavori migliori dei migliori artisti; collezionare le opere in profondità e in ogni settore, non limitandosi alla pittura e alla scultura; collezionare la miglior produzione di artisti di secondo piano; favorire il lavoro e la ricerca dei giovani; setacciare tutto il mondo; collezionare, per quanto possibile, opere “in verticale”: occupano meno spazio».
Barr lascia il Moma nel 1967 e scompare a 79 anni il 15 agosto 1981 dopo una lunga malattia. Che cos’è il Moma, oggi? Il nuovo direttore della sezione pittura e scultura, Kirk Varnedoe, succeduto lo scorso anno a William Rubin, vorrebbe sottrarsi all’etichetta di «delfino» del suo predecessore, tenacemente ancorato ai principi modernisti del Moma, che Rubin ama definire «un museo d’arte moderna con una tradizione centenaria», poco propenso, quindi, ad una maggiore apertura verso il contemporaneo. La nomina, nell’86, di un comitato per l’arte contemporanea, di cui fa parte Linda Shearer, già direttrice dell’Artist Space, una vetrina di Soho dedicata agli artisti emergenti, lascia peraltro intravvedere, sotto la spinta del direttore Richard Oldenburg e soprattutto di Donald Marron, presidente del consiglio di amministrazione e collezionista d’arte contemporanea, un allargamento dei confini, in sostanziale adesione con l’operato del «pioniere» Barr.
Ma da allora i tempi sono cambiati: nessun museo, oggi, potrebbe arrivare, nel giro di pochi mesi, all’acquisto di un capolavoro come «Les Demoiselles», e sono aumentati i problemi finanziari. Il bilancio amministrativo del Moma, proiettato a 26,8 milioni di dollari per il 1992, pare destinato ad un irreversibile aumento, mentre nello stesso anno dovrebbe terminare l’ampliamento del museo, costato sinora 55 milioni di dollari, che porterebbe, con un’addizione sul ramo ovest del preesistente edificio, ad un raddoppio dello spazio, estensione che già oggi si rivela insufficiente.
I problemi del Moma nascono paradossalmente dal suo successo: il numero crescente di visitatori impone nuove spese di amministrazione, e un programma di mostre che in certo qual modo appaghi, con la sua spettacolarità, la massa dei fruitori. 11 Moma cerca soldi ovunque: dalla città, dal governo, ma anche rimpolpando il numero di membri interni e associati. Quando un giornalista chiese ad Alfred H. Barr jr. in che cosa consistesse la sua maggior soddisfazione come direttore del Moma, si sentì rispondere: «Nel vedere i sogni farsi realtà». Ma il «laboratorio» sognato da Barr ora è un’industria.