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Peggy Guggenheim, l’«Art of this Century» Vol. 1/2

Dopo New York a Venezia la mostra dedicata allo straordinario ruolo che la Guggenheim ebbe come gallerista e collezionista. Da il Giornale dell’Arte, n. 48 agosto 1987

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Peggy Guggenheim

NEW YORK. Non c’è figura più difficile da mettere a fuoco nella storia dell’arte del Novecento dell’avido collezionista, il tipo di collezionista, cioè, che si specializza nell’acquisto di arte contemporanea. Dobbiamo indubbiamente molto a questa strana razza robusta, più spesso ridicolizzata e calunniata che ammirata e compresa. Senza collezionisti che abbiano interesse alla nuova arte e siano disposti a prodigare su di essa grandi somme di denaro, l’intera vita dell’arte nelle nostre società sarebbe ben altra cosa. Sarebbe molto più povera, secondo me, e non solo in senso finanziario. Dopo tutto, è su questi collezionisti che fanno affidamento per i loro guadagni gli artisti e i loro mercanti e non va dimenticato che è alle mostre dei mercanti e alle donazioni e i lasciti dei collezionisti ai musei che il resto di noi deve gran parte di ciò che è importante nella nostra esperienza estetica.

Perché, allora, è più o meno prevedibile che questi stessi collezionisti vengano guardati mentre sono in vita con notevole sospetto e risentimento? Ahimè, vi sono molti buoni motivi. Per prima cosa, in un mercato di compratori – che, malgrado tutti i mutamenti sopravvenuti nel mondo dell’arte, è tuttora il tipo di mercato con cui la maggioranza degli artisti viventi deve trattare – non è insolito che dei collezionisti concludano degli ottimi affari. Quel che è peggio, i collezionisti spesso se ne vantano pure, proprio mentre rivendicano per sé la parte di patroni generosi e disinteressati. In secondo luogo, vi sono collezionisti che chiaramente investono nell’arte contemporanea soprattutto nella speranza di fare un colpo finanziario in futuro (le attività delle case d’asta in anni recenti hanno fornito abbondanti prove di tale pratica, e le case d’asta non sono che la punta dell’iceberg).

Vi sono poi anche i collezionisti che non si lasciano guidare tanto dai loro interessi estetici quanto dalle loro ambizioni sociali, predilezioni sessuali, affinità politiche, o dalla loro fissazione su qualche altra ossessione extra-artistica. I collezionisti, anche quelli più illuminati e avventurosi, tendono a essere arbitrari nelle loro decisioni volubili nei gusti, incoerenti nelle loro motivazioni. I loro interessi sono soggetti a bruschi cambiamenti che di rado hanno un’origine puramente estetica.

I collezionisti con sufficienti soldi ed energia costituiscono, inoltre, un potere; il particolare tipo di potere che essi sono in grado di esercitare inevitabilmente provoca sentimenti di impotenza, e quindi di risentimento, invidia e anche odio esplicito, fra chi è escluso dalle sue elargizioni. Attorno a quasi ogni significativa raccolta d’arte – contemporanea inevitabilmente si accumula prima o poi una consistente concreazione di sentimenti feriti, speranze frustrate e promesse non mantenute in attesa di essere vendicati. Come ogni forma di potere, quello del collezionista è quindi un naturale obbiettivo dellla paranoia, e non vi è mai carenza di persone, dentro e fuori il mondo dell’arte, che siano dedite a nutrire risentimento motivato o immaginario e a progettare la loro vendetta.

Certi collezionisti, naturalmente, corrono minori rischi di altri di venire mal giudicati a questo riguardo. Prendiamo la scomparsa Peggy Guggenheim*, che è stata il soggetto di due libri molto diversi. Il primo è una biografia di Jacqueline Bograd Weld che non tralascia nessun aneddoto sensazionalistico, non importa quanto sgradevole o ripugnante (Peggy: The Wayward Guggenheim, Dutton). L’altro è l’ampio catalogo specialistico di Angelica Zander Rudenstine che, mentre ignora scrupolosamente la vita personale della collezionista si concentra con sovrumana oggettività sulla documentazione della collezione di opere d’arte raccolte dalla Guggenheim in un periodo particolarmente cruciale della nostra storia. (Peggy Guggenheim Collection, Venice; Harry N. Abrams e Solomon R. Guggenheim Foundation). La Guggenheim era ovviamente in vita un personaggio famoso (morì nel 1979 all’età di ottantuno anni.) Insieme, i due libri racchiudono i due aspetti della sua carriera, quello scandalistico e quello serio, nessuno dei quali si può ignorare.

In vita Peggy Guggenheim era stimata per la sagacia e il coraggio con cui riconosceva importanti nuovi talenti – soprattutto, ovviamente, Jackson Pollock – mentre veniva insultata per la sua avarizia, meschinità e mancanza totale di qualsiasi forma di morale personale. Che, come collezionista e mercante, abbia svolto un ruolo significativo nella formazione della scuola di New York è ora universalmente riconosciuto, e la sua distinzione in tal senso non è affatto diminuita dal fatto che si è servita di eccellenti consigli – quale collezionista importante non lo fa? – o che fece ottimi affari con gli artisti che erano beneficati da lei. Che sia anche stata per gran parte della sua vita una sventurata egoista che lasciava dietro di sé vite spezzate dovunque fosse completo il suo potere sugli altri è pure innegabile. Per molti aspetti era l’archetipo stesso dell’ereditiera come folle egocentrica che usa i soldi che ha (nel caso della Guggenheim non si trattava di un’enorme fortuna) per soddisfare i suoi appetiti capricciosi e imporli agli altri.

Nella biografia di Jacqueline Bograd Weld ci viene risparmiato ben poco che riguardi i sordidi dettagli dì tali faccende. Ma qualunque siano i nostri giudizi sulla Guggenheim come donna – e non possono che essere duri, io credo – fu ciononostante una di quelle persone che cambiarono il mondo dell’arte. In cosa consiste tale cambiamento e come arriva a svolgere il ruolo che ebbe nella vita dell’arte, sono, nella nostra prospettiva storica, la cosa più interessante.

In particolare, la sua carriera di collezionista, mercante e patrona fu molto più breve di quanto non farebbe supporre l’ampiezza e la fama della sua collezione. La sua fase maggiore andò dal 1938 al 1948. Dopo di allora continuò ad aggiungere opere alla collezione (Bacon, Boccioni e Gonzalez negli anni 50, ad esempio, e Dubuffet e Kupka negli anni 60, e moltissimi italiani durante tutto il periodo in cui visse a Venezia), ma, con alcune notevoli eccezioni, non furono queste le acquisizioni che diedero nuovo lustro alla raccolta.

Negli ultimi anni essa non era più a contatto con le correnti più vitali dell’arte, e comunque aveva cominciato a pensare a sé come a un personaggio storico, il che di per sé è forse fatale per quel che riguarda l’avere un interesse continuativo nella nuova arte. Dunque, praticamente il ruolo della Guggenheim come potenza nel mondo dell’arte fu limitato a un unico decennio. Ciò che va anche ricordato è che lei apparteneva a quella generazione di espatriati che venne in Europa tra le due guerre. Era andata a Parigi negli anni ’20, ed era divenuta rapidamente parte della locale comunità di artisti e scrittori espatriati. Se non era per la Seconda guerra mondiale, è improbabile che sarebbe mai tornata in America.

L’ambiente bohemienne che frequentava a Parigi e Londra le si confaceva, come pure la distanza che le consentivano di mantenere dall’opprimente atmosfera familiare di New York da cui era fuggita. Al suo ritorno a New York nel 1911, sotto certi aspetti lei era un’estranea, almeno per quel che riguarda la scena artistica, non meno degli artisti emigrati il cui arrivo modificò la scena tanto profondamente.

A Parigi negli anni Venti, aveva incontrato, fra gli altri, Marcel Duchamp, Brancusi, Kay Boyle, Jean Cocteau, Malcolm Cowley, Nancy Cunard, Jànet Flanner, Man Ray, Tzara, Virgil Thompson, Hemingway, Joyce, Pound. Fu questo il suo ingresso nel mondo dell’avanguardia internazionale, e le tornò utile quando anni più tardi diventò una seria collezionista e mercante d’arte. Aprì la sua prima galleria, chiamata Guggenheim Jeune nel gennaio del 1938, a Londra e non a New York, con Duchamp come suo primo consulente.

La mostra inaugurale fu dedicata all’opera di Cocteau il che, forse, non fu di buon augurio. Ma la seconda mostra lo fu, poiché essa portò a Londra la prima mostra mai dedicata a Kandinskjj in quella città. Siccome non fu venduto niente, la Guggenheim si sentì in obbligo di comprare lei stessa uno dei quadri. Questo acquisto segnò l’inizio della sua carriera di collezionista. La Guggenheim Jeune si rivelò un’impresa di breve durata (fu aperta il 21 gennaio 1938 e chiuse il 22 giugno 1939), ma non perché diminuì l’interesse da parte della fondatrice. Anzi, aveva rapidamente deciso che una galleria non era sufficiente alle sue esibizioni.

Ciò che lei voleva istituire a Londra era addirittura un Museo d’arte moderna. Ispirata da quello esistente e New York, che era stato fondato dieci anni prima e si stava allora trasferendo nella sua prima sede permanente all’ 11 della Cinquantatreesima strada Ovest, essa si accinse a questo formidabile compito con quella combinazione di energia demoniaca, astuto calcolo e folle noncuranza che la doveva contraddistinguere in altre stranissime avventure in futuro. Persuase Herbert Read a lasciare la direzione del Burlington Magazine per fare il direttore del nuovo museo, facendogli un contratto di cinque anni, e fece in modo che venisse affittata la residenza londinese di Kenneth Clark per l’uso suo e del museo. L’evento inaugurale doveva essere una mostra in prestito di capolavori moderni a partire dal cubismo e dall’astrazione per finire con il surrealismo e altre opere contemporanee.

A Read fu chiesto di stilare un’apposita lista di artisti da esporre in tale mostra, e quando il progetto dovette essere abbandonato a causa della guerra imminente, gli pagò metà dei soldi che gli spettavano da contratto e se ne andò sul continente per acquisire la lista proposta per la sua collezione. Era convinta che prima o poi avrebbe avuto un museo da qualche parte.

© The New Criterion e per l’Italia «Il Giornale dell’Arte»