Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Le storie che seguono sono vagamente ispirate a fatti reali. Se qualcuno vorrà riconoscersi nei diversi personaggi lo farà per propria scelta, e a proprio rischio e pericolo. Questo libro non parla di nessuno in particolare ma forse di tutti noi, e certamente parla del sottoscritto, del quale costituisce una sorta di autoritratto divertito e disperato. Anche se, a dire il vero, qui non ci si dispera troppo, né troppo si spera; vi si accetta che il mondo è inesatto, e noi con lui
Un’ennesima serata sbagliata a Parigi, dove non posso dire di trovarmi per caso. Diciamo che si prospetta una collaborazione, molto a margine, in un’operazione di cui so ben poco. Qualcuno vorrebbe costruire l’ennesimo luogo del futuro, un centro che riunisca spazi espositivi pubblici, gallerie private, atelier per gli artisti, gli immancabili spazi per eventi e performance, e infine enormi depositi per lo stoccaggio di opere d’arte. Il tutto, ovviamente, a firma di un noto architetto internazionale. Con la leggerezza che sembra contraddistinguermi, soprattutto nei momenti drammatici, decido di vedere come butta, senza preoccuparmi troppo. Mentre sorseggio il mio drink, cupo all’idea di dover passare la serata con dei perfetti sconosciuti, riconosco al tavolo dell’aperitivo un giovane artista, figura che – avendo la capacità di rendere automaticamente accettabili e santi perfino i consessi più ignobili – in queste occasioni non deve assolutamente mancare; la borghesia non ha bisogno di artisti se non per intrattenersi.
Non conosco gli altri invitati, se escludiamo la signora che mi ha coinvolto in questo piccolo disastro e il signore misterioso e afono per cui la nostra madama lavora. Mi sembra un gruppo di simpatiche canaglie, come se ne incontrano tutti i giorni nel nostro ambiente. Siamo in otto, incluso il sottoscritto e il suddetto grande Maestro, il quale siede accanto a me e comincia a bere di buona lena. Tra i nostri commensali freschi di sartoria ci sono nell’ordine: S.T. un noto immobiliarista di Parigi e collezionista emergente; A.M.L. di cui ignoro la professione ma so che abita a Montecarlo; G.A. il più loquace del gruppo, lavora nell’alta moda, vive a Milano e tiene la sua collezione in Svizzera; M.T. un vero snob, lui si occupa di fondi di investimento. Poi c’è la signora compunta, la quale tenta di tirarmi dentro l’operazione del mecenate afono, il quale si occupa di trasporti d’arte. Sono tutti a loro modo cordiali e buontemponi.
Posseggono quella mirabile capacità di parlare per ore senza mai dire nulla di essenziale che li riguardi. Tutti ora chiacchierano d’arte, commentano una mostra al Palais de Tokyo, e le recenti nomine in Francia. Si stupiscono che siano tutte donne le nuove direttrici di musei, un altro segno dei tempi, commentano sospirando, evidentemente preoccupati. A quel punto io e l’artista ci alziamo per fumare la prima e ultima sigaretta. Una volta soli sulla terrazza con vista sui giardini del Trocadéro, espongo alla giovane star una mia del tutto trascurabile teoria. In effetti – comincio a congetturare – i nostri commensali rappresentano uno spaccato abbastanza preciso dell’attuale economia globale dell’arte contemporanea: non manca nessuno. Ci sono nell’ordine di apparizione uno speculatore immobiliare, un evasore fiscale, uno che ricicla denaro di dubbia provenienza e un altro che specula su un mercato finanziario senza regole. In effetti alcuni di loro sono miei collezionisti – risponde lui – i loro soldi sono veri e questo mi basta, non ho certo bisogno di sapere come li fanno.
Chiusa per sempre la discussione, con aria di sufficienza lui spegne la sua sigaretta e mi invita cortesemente a rientrare. I nostri sono ancora seduti a chiacchierare, e noi prendiamo di nuovo posto mentre i ragazzi del catering servono il secondo. Il tipo più loquace, il quale ha evitato, con gratuita villania, di guardarmi negli occhi fino a quel momento, si rivolge a me degnandomi finalmente della sua attenzione: “dato che lei è un professionista può dirci qual è a suo avviso la collezione d’arte contemporanea più importante del mondo, dico dal punto di vista del suo valore economico, e qual è invece il museo che lei detesta di più?”
Io che non porto mai rancore, pensando mi fosse concessa una battuta tra amici, fornisco evidentemente la risposta sbagliata. “Temo che la collezione più ricca del mondo e il museo che detesto di più in effetti coincidano”, la butto lì ridendo: “Si tratta del tipo della collezione off shore, il cui modello è il porto franco di Ginevra”. Non pago della mia risposta spiritosa aggiungo subito: “Per ovvie ragioni nessuno sa con esattezza cosa essa contenga ma ho motivo di credere che le opere in deposito non siano da meno di quelle conservate in alcuni dei più celebri musei del pianeta.
E questa è la collezione che detesto di più perché si tratta di arte sottratta al pubblico a tempo indeterminato, un’arte che riesce a produrre denaro restando ferma al buio. “Sapete – continuo io convinto di aver attirato l’attenzione definitivamente – ciò che succede al porto franco di Ginevra mi fa venire in mente quel gioco di strada molto in voga a Napoli, il gioco delle tre campanelle.” “Cosa intende esattamente?” mi domanda il signore afono. “Vorrei dire – ribatto io – che l’arte sta al porto franco come la pallina sta al gioco delle tre campanelle: nessuno sa mai dov’è, ma produce valore ogni qualvolta si sposta. E a vincere è puntualmente il banco, cioè il furbetto che muove la pallina.” “E chi sarebbe il banco a Ginevra?” mi incalza l’immobiliarista con un ghigno che dovrebbe insospettirmi. “Io non so chi è il banco” – rispondo – “so solo che c’è qualcuno che traffica con opere conservate nel porto franco, opere che non ha mai visto e che non sono sue, grazie alle quali realizza compensi da capogiro.”
Al culmine dell’euforia mi rendo conto di essere il solo a divertirsi al tavolo: l’atmosfera è sensibilmente cambiata. Cosi l’uomo loquace si gira verso la dama sempre più compunta e imbarazzata e le dice: “Hai invitato a cena un giovane finanziere, congratulazioni”. Questa battuta, che nelle intenzioni paternalistiche dell’uomo loquace dovrebbe servire a sdrammatizzare la situazione, finisce per convincermi che è tempo di alzare i tacchi. In effetti con gentilezza ma fermezza io e il grande Maestro, sempre al mio fianco, veniamo accompagnati fuori circa dieci minuti dopo il caffè.
Mentre ci allontaniamo l’artista sempre più insofferente mi dice: “non stupirti vecchio mio se un giorno non avrai più lavoro, e ricorda che solo gli ipocriti sputano nel piatto in cui mangiano”. A quel punto protesto dicendo che io non mangio nel piatto di questa gente, magari lui si ma io no. Mentre fa un ultimo tiro di sigaretta mi guarda in tralice con l’aria di chi la sa lunga, a insinuare che alla fine mangiamo tutti nello stesso piatto. Qualche giorno dopo questa romantica cena parigina, la signora gentile e compunta mi comunica via mail quanto segue: “Gentile signore, per ragioni tecniche la nostra collaborazione non potrà avere luogo, cordiali saluti”. Mai interruzione di collaborazione fu per me più gradita e provvidenziale.
L’uomo afono è stato arrestato qualche settimana dopo, appena sceso dall’aereo, in un aeroporto francese con vista sul mare Mediterraneo. A quel punto non ho più avuti dubbi su chi si teneva il banco al porto franco vicino casa mia.