Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Un’inedita traduzione di un racconto sulla vita a NYC tra gli anni Settanta e Ottanta, atto d’amore verso una città rovina in divenire
Per quelli di noi che erano in città da un po’, lo squallore non era un problema. La maggior parte della città era squallida. Se questo ti preoccupava, te ne andavi, e se eri preso dal romanticismo, un lungo regime di squallore nella vita di tutti i giorni avrebbe finito per ingrigire le tue illusioni. A distanza di tempo, a volte mi stupisco retrospettivamente di ciò che davo per scontato. Grandi incendi a pochi isolati di distanza ogni notte per un paio d’anni sembrerebbero favorire uno stato d’animo perennemente turbato, ma sono diventati solo tempo. Ho trascorso l’estate del 1975 in un appartamento all’ultimo piano della 107a Strada, dove di notte le finestre erano illuminate dal bagliore degli incendi lungo Amsterdam Avenue. Era in corso uno sciopero della nettezza urbana e cumuli di rifiuti, che puzzavano per il caldo, decoravano i marciapiedi di tutti i quartieri, tranne quelli le cui case erano presidiate dai portieri. Qui, però, invece di essere imbustati nella plastica, venivano semplicemente dati alle fiamme ogni sera. Lo spettacolo è passato dall’apocalittico alla normalità in pochi giorni.
Due estati dopo vivevo con due coinquilini in un alto edificio sulla Broadway, all’altezza della 101esima strada. C’erano un portiere e un addetto all’ascensore; la maggior parte degli altri inquilini erano anziani ebrei europei; il nostro affitto per cinque grandi stanze era di 400 dollari al mese. Faccio notare questi fatti perché gli altri edifici che si affacciavano su Broadway in quella zona erano per lo più alberghi con una sola stanza, affittati da sfortunati, da persone prive di lavoro, da dipsomani, da drogati, da malati di mente dimessi: esattamente quella parte di popolazione che nel decennio successivo sarebbe stata espulsa e lasciata a condurre la propria esistenza nei rifugi o nei portoni o nei tombini o nelle carceri. Ciò che accomunava queste persone era l’impossibilità di integrarsi nella società tradizionale, altrimenti non era possibile stereotiparle.
Ad esempio, un intrattenimento quotidiano piuttosto inquietante nei mesi più caldi era fornito da un gruppo di travestiti di mezza età che, in miniabito e bouffant, si appoggiavano alle auto parcheggiate ed emettevano perfette armonie doo-wop a quattro voci. C’era da chiedersi in quale volume della serie “Golden Groups” dell’etichetta Relic potessero comparire, magari raffigurati sulla copertina in incarnazioni più giovani, magre, baffute e vestite di smoking. Per loro, come per la maggior parte della gente della strada – compresi, ci piaceva pensare, noi – New York City era l’unica casa immaginabile, l’unico luogo che non poneva limiti esterni all’aspetto o al comportamento.
Quando si verificò il blackout, la sera del 13 luglio 1977, sembrò che fosse arrivata l’ora della resa dei conti, quando tutti quegli estranei avrebbero preso il controllo. Naturalmente non accadde nulla di tutto ciò. Gli estranei si impadronirono di televisori e forni tostapane e abiti a tre pezzi e arrosti in piedi e quarti di Old Mr. Boston e cartoni di Newports e forse divani componibili, ma pochi avrebbero saputo cosa fare con le leve della società se fossero state presentate in una scatola rivestita di velluto. Ma nemmeno io e i miei amici lo avremmo saputo. Per tutte le ovvie differenze tra noi e gli abitanti della S.R.O., eravamo simili nel nostro distacco da qualsiasi idea di comunità, se non la più campanilistica. Alla fine la folla si dissolse come un pugno quando si apre la mano, e le panchine sulle isole di traffico di Broadway furono ripopolate da persone che di tanto in tanto tiravano giù una bottiglia appesa a uno spago da un ramo d’albero coperto di foglie.
I saccheggiatori erano americani esemplari, il cui impulso immediato in una crisi era quello di provvedere all’acquisto di beni di consumo. Non avevano alcun interesse per il potere. E nemmeno nessuno di quelli che conoscevo. Volevamo solo che il potere sparisse. A volte sembrava che l’avesse già fatto. A quei tempi la polizia, quando non era del tutto invisibile, era quasi benigna, o almeno non mostrava alcun interesse per quelli come noi, essendo occupata con i veri crimini violenti. Quasi tutti hanno raccontato di aver camminato per strada fumando uno spinello e di essersi improvvisamente accorti di aver appena incrociato un poliziotto in uniforme, che non poteva non aver percepito l’odore, ma aveva risolutamente guardato dall’altra parte. L’illegalità occasionale era irrilevante e quotidiana, una questione di consumo di droga e di furto di beni e servizi, cose di poco conto. Ci arrangiavamo con lavoretti da straccioni, in parte perché eravamo preoccupati dalle nostre occupazioni e in parte perché una certa spossatezza ci aveva investito, un marchio dell’epoca.
La rivoluzione fu rimandata a tempo indeterminato, allora, perché eravamo troppo comodi. Non che non vivessimo in discariche dove i pavimenti erano inclinati e le pareti erano tenute insieme con nastro adesivo, i telai delle finestre erano stati calafatati l’ultima volta nel 1912 e il riscaldamento si spegneva regolarmente per una settimana alla volta nel cuore dell’inverno. I padroni di casa erano i cattivi principali e le manifestazioni più visibili dell’autorità. Pochissimi andavano ancora di porta in porta a riscuotere gli affitti, ma la maggior parte poteva essere fisicamente rintracciata, seduta al telefono di una scrivania di metallo di seconda mano in qualche decrepito ufficio di due stanze, compresi quelli che tornavano a casa in ville a Great Neck.
Il mercato immobiliare era un mercato di acquirenti e i proprietari dovevano lottare per ottenere ogni dollaro, e di conseguenza erano riluttanti a fare spese che sarebbero state superiori alle spese legali previste per non farle. Allo stesso tempo, si poteva lasciare l’affitto per un po’ e non affrontare lo sfratto, perché il processo di sfratto stesso sarebbe costato al proprietario un po’ di cavoli, oltre al fatto che poteva essere difficile trovare qualcun altro che accettasse il contratto di locazione, per cui un inquilino che pagava solo ogni due mesi era meglio di niente. Eravamo a nostro agio perché potevamo vivere con poco, soddisfacendo la maggior parte delle esigenze in uno stile ferocemente minimale per il quale avevamo sviluppato un’estetica che lo definiva e lo mitigava. Era una fortuna, se non una coincidenza, che il cappotto logoro che si poteva ottenere per tre dollari fosse il massimo della moda.