Capsule Digitale

My Lost City (Vol.1/5)

Un’inedita traduzione di un racconto sulla vita a NYC tra gli anni Settanta e Ottanta, atto d’amore verso una città rovina in divenire

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Delirious New York

L’idea di scrivere un libro su New York mi è venuta in mente per la prima volta intorno al 1980, quando ero uno scrittore più di desiderio che di fatto, e trascorrevo le mie notti nei club e nei bar e le mie giornate in modo piuttosto casuale nell’ufficio postale della New York Review of Books. Fu lì che mi capitò tra le mani l’epocale “Delirious New York” di Rem Koolhaas. “New York è una città che sarà sostituita da un’altra città”, è la frase che mi è rimasta impressa. Il libro di Koolhaas, pubblicato nel 1978 come inno al progetto incompiuto di New York, la città delle meraviglie, sembrava una fantasticaria archeologica, un’evocazione dell’arroganza e dell’ambizione di una città morta. Guardavo con stupore le sue illustrazioni, che mostravano luoghi abbaglianti e remoti come Ninive e Tiro. l’ ironia è che molti dei soggetti erano raggiungibili a piedi: il Chrysler Building, il McGraw-Hill Building, il Rockefeller Center. Ma non trasmettevano la sensazione che avevano quando erano nuovi.

Nelle pagine di Koolhaas New York City era palesemente il luogo delle fantasie utopiche e distopiche dell’epoca del cinema muto. Era Metropolis, con strade sopraelevate, giganteschi proiettori che sondano il cielo, macchine volanti che navigavano nei canyon dei grattacieli. Era permanentemente ambientata nel futuro. Era Metropolis, con strade sopraelevate, giganteschi proiettori che sondano il cielo, macchine volanti che navigavano nei canyon dei grattacieli. Era permanentemente ambientata nel futuro. Era Metropolis, con strade sopraelevate, giganteschi proiettori che sondano il cielo, macchine volanti che navigavano nei canyon dei grattacieli. Era permanentemente ambientata nel futuro.

La New York in cui vivevo, invece, stava rapidamente regredendo. Era una rovina in divenire e io e i miei amici eravamo accampati tra i suoi cocci e tumuli. Questo non mi angosciava, anzi. Ero affascinato dalla decadenza e desideroso di saperne di più: alberi di ailanto che crescevano attraverso le crepe dell’asfalto, stagni e ruscelli che si formavano in blocchi livellati e si facevano lentamente strada verso la riva, animali selvatici che tornavano da secoli di esilio. Uno scenario del genere non sembrava poi così inverosimile. Già a metà degli anni ’70, quando ero studente alla Columbia, le mie finestre si affacciavano sulla piazza della School of International Affairs, dove nelle notti d’inverno arrivavano truppe di cani feroci che si coricavano sulle grate del riscaldamento. Da allora la città era ulteriormente decaduta. In Canal Street c’era un edificio di cinque piani vuoto di inquilini umani che era stato occupato da cima a fondo dai piccioni. Se si camminava verso est su Houston Street dalla Bowery in una notte d’estate, la giungla di isolati vuoti lasciava presagire l’imminente natura selvaggia, quando le liane avrebbero avvolto i grattacieli e i funghi avrebbero ricoperto Times Square.

A quel tempo gran parte di Manhattan sembrava spopolata anche alla luce del giorno. A parte gli isolati ad alta intensità di Midtown e del distretto finanziario, il luogo sembrava essere abitato principalmente da fannulloni e perdigiorno, venditori di articolazioni allentate e adolescenti che si danno alla macchia, mendicanti e ubriachi specifici, persone le cui pulci li mettevano in strada alle otto e ne permettevano il rientro solo alle sei. Molti esercizi commerciali sembravano rimanere aperti solo per dare ai loro proprietari un riparo dalle intemperie. Quante volte un dollaro ha attraversato il bancone del negozio di lettere in plastica, o lo showroom di protesi per arti, o il posto che apparentemente commerciava in mobili per ufficio ma che esponeva in vetrina una macchina da scrivere cinese e un vitello a due teste impagliato?

Fuori, sotto una tenda da sole, in un pomeriggio caldo, ci sarebbe stato un tavolo da gioco, strutturato come una vecchia valigia con quattro angoli di metallo, attorno al quale quattro ragazzi avrebbero giocato a domino. Forse c’era un piccolo televisore, su una cassa del latte, collegato alla base di un lampione, che trasmetteva il baseball. A ogni angolo c’era una vetrina che pubblicizzava Optimo o Te-Amo o Romeo y Julieta, e oltre ai sigari vendevano oscenità e bibite gassate e gomme e caramelle e buste di vetro e a volte attrezzature della polizia. E c’erano Donuts Muffins Snack Bar e Chinas Comidas e Hand Laundry e Cold Beer Grocery e Barber College, tutti vecchi amici.

Quei posti non erano esattamente degli esercizi commerciali, ma più che altro delle stanze di casa. Tendevano a pubblicizzare solo le loro descrizioni; i loro nomi, come quelli delle divinità, venivano tenuti nascosti, potevano conoscerli solo leggendo la licenza affissa da qualche parte dietro il registratore di cassa. Alla bodega si potevano comprare platani e caffè e malta e lardo, o una sola sigaretta – una loosie – o un foglio di carta, una busta e un francobollo.

Madelon Vriesendorp, “Flagrant Délit”, 1975. Illustrazione per la copertina di “Delirious New York” di Rem Koolhaas