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«Sono anarchico, surrealista, alchimista»

Delle mostre sul tema «Arte e Scienza» quella curata da Arturo Schwarz sull’Alchimia alla XLII Biennale Internazionale d’Arte di Venezia è certamente la più attraente per il carattere misterioso ed esoterico. Ecco le risposte alle domande di Marco Vallora* Da “Il Giornale dell’Arte” n°35, giugno 1986

 

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Arturo Schwarz

In fuga verso la luce, via dalla «nigredo».

MILANO. La gran barba da santone, no, non la vuole mostrare in fotografia. Certo, che di immagini di sé ne ha molte, anche insieme ai suoi artisti-idoli, i suoi totem, che si chiamano Duchamp e Man Ray. «Ma non ho bisogno di santi protettori, non sento la necessità di dimostrare al mondo che ero loro amico. Non mi coinvolge questo personalismo, che va tanto di moda. Non sono uno di quei falsi santoni che si fanno fotografare anche nudi. Né vedo che interesse possa avere la mia faccia. A me bastano i libri che ho scritto, sono loro che devono parlare». E di libri ne ha scritti davvero molti, Arturo Schwarz, insolito personaggio del mondo artistico italiano, anche se è nato ad Alessandria d’Egitto, nel 1924.

«Io sono anarchico, surrealista, alchimista», dice di sé. Ritenuto uno dei più profondi conoscitori delle avanguardie (a quindici anni è stato folgorato dall’incontro con Nadja e da allora è diventato un fervente amico-discepolo di Breton), ha assaggiato i campi concentramento egiziani e la tortura, dopo aver svolto una rilevante attività come dirigente clandestino del partito trotskysta. Poeta, in Italia si fa conoscere soprattutto come saggista (La sposa messa a nudo in Marcel Duchamp, anche Almanacco Dada) e come gallerista. Ma sul più bello del boom artistico decide di abbandonare l’attività di mercante e di dedicarsi ai suoi prediletti studi di antropologia e alchimia (in America svolge anche ruoli di professore d’università in campo etnologico). Gli ultimi suoi libri, per esempio si sono interessati di Immaginazione Alchemica (La Salamandra) e di Alchimia indiana (Laterza). In conseguenza anche di questa sua curiosa specializzazione, la Biennale lo ha invitato a preparare per la prossima edizione di giugno/ottobre, dal titolo «Arte e scienza», un settore esplicitamente dedicato all’alchimia.

[Marco Vallora]  Incominciamo dalla questione più elementare. Quanti saranno gli artisti nella mostra Arte e alchimia? Qualche nome?

[Arturo Schwarz]  Un numero lo posso anche dire, ci saranno poco più di duecento artisti, ma i nomi non li voglio fare. Dal momento che non posso citarli tutti, non vedo perché sceglierne alcuni. D’altronde il criterio che m’ispira non è quello qualitativo, è inutile discriminare tra grandi e meno grandi. Posso dire, per dimostrare quant’è ampia la ricerca, che vi sono contemplati moltissimi paesi, anche insospettabili: dall’Albania al Cile, da Cuba alla Birmania, dall’Irak alle Canarie, alla Romania.

[MV]  È possibile delineare almeno una geografia cronologica?

[AS]  Salvo qualche incisione antica, oppure qualche gigantografia d’obbligo (nel caso che non siamo riusciti ad ottenere l’originale in prestito), s’incomincia con gli ultimi anni dell’Ottocento, per poter giustificare la presenza di due artisti emblematici come Moreau e Felicien Rops e si arriva sino al 1985, cioè a poco prima dell’annunzio di questa mostra. Ho voluto mettere una data-limite, per escludere le opere di circostanza, create da quegli artisti che vogliono a tutti i costi partecipare alla Biennale. A questo proposito dirò che ho anche ricevuto delle telefonate di raccomandazione da parte di politici, che mi suggerivano artisti che con l’alchimia non c’entrano nulla. Mentre è ovvio che questo è stato l’unico motivo discriminante della scelta.

[MV]  La si potrà dunque ritenere l’esposizione più esauriente, su questo tema-monstre”!

[AS]  Non sarò certo io a ritenere questa mostra esente da errori, anzi, sono consapevolissimo dei rischi che corro. Devo inoltre aggiungere chè quando mi è stato per la prima volta proposto questo compito ho rifiutato, perché il tempo mi sembrava troppo limitato. Ma il professor Calvesi è stato così convincente nel persuadermi, che ho finito per cedere. Tanto più che questa mostra non è, ovviamente, il frutto di un lavoro di un solo anno, ma ha potuto concretizzarsi grazie al mio studio almeno trentennale sulla tematica dell’alchimia e basarsi sulle schede di riferimento che ho preso in questi anni. Ma – ripeto – certo non sono riuscito lo stesso a raggiungere una vera completezza. Anche perché in molti casi non tutti i musei hanno accettato di prestare le proprie opere…

[MV]  Perché? Non si fidano della Biennale?

[AS]  Per certi versi, è vero, la Biennale gode di una pessima fama all’estero, sono convinti che il trattamento delle opere sia insoddisfacente…
Del resto gli operai di una trascorsa Biennale ridipinsero anche la celebre «Porta di Rue Larrey» di Duchamp, come se fosse un infisso del padiglione…
Ma non è solo questo. Venezia, per motivi oggettivi e ineliminabili presenta delle caratteristiche climatiche che sono proibitive. Senza contare che l’umidità e l’intensità di luce che regna ai Giardini impedisce agli statuti di alcune istituzioni di cedere certe opere. Anche nel caso di musei, molto generosi, come il Guggenheim, che di fronte alla richiesta di alcune opere più rare, hanno dovuto rifiutare.

[MV]  E gli artisti? In un caso come questo – di legame tra arte e alchimia – chissà perché, si pensa che gli artisti siano più gelosi delle loro opere e non le abbiano cedute a musei e collezionisti…

[AS]  Ovviamente i pittori proprietari delle proprie opere non hanno posto veti, i rapporti più complessi sono stati con i musei e con alcuni collezionisti.

[MV]  Qual è il caso di rinunzia che le brucia di più?

[AS]  Il primo che mi viene in mente è il Pollock del Guggenheim, che si chiama appunto «Alchimia».

[MV]  L’occasione di questa mostra, le ha fatto conoscere degli artisti nuovi, oppure ha semplicemente riverificato e consolidato le sue scoperte?

[AS]  Di artisti nuovi ne ho scoperto un bel po’, almeno un trenta per cento, anche perché non mi sono limitato a tirar fuori le mie schede. Ho viaggiato, ho visitato musei, gallerie, studi di pittori. E mi sono stupito di verificare come tra le ultime generazioni il tema dell’alchimia sia diffuso e approfondito.

[MV]  A questo proposito, il critico Bonito Oliva ha voluto polemizzare con lei, dicendo che inviare agli artisti un questionario sulle loro frequentazioni alchemiche è per lo meno insolito, data la segretezza del tema.

[AS]  Mi sembra un’obiezione assurda. È chiaro che non ho preso Art Diary e mandato il questionario ai duemila e più artisti che vi sono contemplati. Ho spedito la lettera soltanto agli artisti che sapevo già coinvolti in questo tipo di ricerca, o comunque molto vicini. E non per informarmi sul loro coinvolgimento, ma esplicitamente chiedendo loro una risposta-contributo, in vista della pubblicazione della monografia che accompagna il catalogo. Il che mi sembra una cosa molto corretta: innanzitutto perché non mi va di inserire in un ambito specifico un artista che magari non è d’accordo con me e poi non voglio assolutamente scrivere un libro con dentro soltanto le mie opinioni. Mi va benissimo anche il parere di chi ha delle idee completamente diverse dalle mie.

[MV]  In questo senso, ci sono state delle sorprese o, addirittura, dei rifiuti?

[AS]  Sì, certamente. Per esempio, Meret Oppenheim, che io amavo molto, ma che non si era sentita assolutamente coinvolta dal tema e. che ho dovuto escludere. Oppure Rauschenberg. Certamente pubblicherò anche le obiezioni di altri artisti presenti, perché è giusto che il lettore conosca ragioni, che spesso io non condivido, ma che rispetto.

[MV]  In altri casi, il questionario le è servito come verifica, per comprovare certe intuizioni?

[AS]  Indubbiamente sì, è avvenuto anche questo. E ho scoperto che tra gli esponenti dell’arte povera, della transavanguardia, tra i minimalisti, quello dell’alchimia è un tema abbastanza seguito. E in certi casi devo ammettere che ho ricevuto dei testi di una bellezza e di un’acutezza insospettati.

[MV]  Dunque l’approccio all’alchimia è consapevole, ragionato. Non si rivela un rischio, questa consapevolezza, per la creatività? Lei sa benissimo che una psicoanalista come Marie Bonaparte avvertiva che un eccessivo possesso cosciente dei temi archetipici da parte dell’artista richiava di compromettere irrimediabilmente la loro spontaneità.

[AS]  Questo è vero, ma non sempre le risposte dei pittori si sono rivelate così dotte e approfondite. Quello che interessa me è un coinvolgimento autentico: non una sapienza astratta.

[MV]   Jung stesso ricordava che spesso «certi motivi archetipi, che sono comuni in alchimia, appaiono nei sogni di individui moderni che non conoscono la letteratura alchemica». Nel caso della mostra, sono più gli esempi degli artisti che tematizzano il motivo alchemico, che ne fanno un uso meta-riflessivo, oppure sono in maggior numero quelli che lei ritiene inconsciamente legati a questo universo mentale?

[AS]  È vero che spesso l’artista è un alchimista che ignora di esserlo e interroga la memoria del mondo archetipale senza accorgersene. Difatti, in mostra, sono più numerosi i pittori «inconsapevoli».

[MV]   Capisco che non esiste più la distinzione tra forma e contenuto, ma l’elemento alchemico si avverte maggiormente a livello tematico oppure operativo?

[AS]  L’alchimia fonda la propria scienza abolendo tutte le contraddizioni; dunque, questa distinzione non mi sembra esistere più. Il carattere alchemico include la coincidenza di tutte le polarità che sembrano contrapporsi.

[MV]  Quali sono gli altri temi classici che caratterizzano lo studio alchemico?

[AS]  Sono molti e si ritrovano tutti nella ripartizione della mostra, che si divide in quattro momenti. L’alchimista, filosofo e poeta (qui abbondano autoritratti e strumenti alchemici). La conciliazione degli opposti (immagini di montagne, alberi, arcobaleni, come superamento della dualità cielo/terra). La conoscenza è libertà (il percorso alchemico, dalla Nigredo alla luce). L’amore è conoscenza (sull’importanza della donna e dell’amore nell’alchimia).

[MV]  Raccontati così, questi temi, potrebbero ingenerare un equivoco: che si tratti di una mostra in prevalenza figurativa.

[AS]  E sarebbe un errore, indubbiamente, perché non è necessario che quest’iconografia risulti di tipo figurativo. Ci sono colori, forme geometriche, cerchi e triangoli, che esauriscono non meno convincentemente il discorso alchemico. Basterebbe pensare a certe opere di Klee e di Kandinskij che naturalmente sono in mostra.

[MV]  Ecco, Kandinskij. Ovvero, l’astrattismo spiritualista. Quando lei ha scritto il libro su Duchamp, lamentava già la tendenza misticheggiante di annettere l’alchimia – questa scienza materialista – all’area del sacro.

[AS]  È un rischio effettivo tanto più che non c’è dubbio che il pensiero alchemico predichi la materia e risulti ateo. Ma non è un caso che Kandinskij non abbia  parlato mai di arte astratta, piuttosto di nonoggettività, il che è ben diverso. E per esempio nella sua produzione ci sono dei simboli alchemici, probabilmente inconsci, che sono inequivocabili.

[MV]  Quali sono gli altri equivoci più volgari che avvolgono l’alchimia?

[AS]  Per esempio l’idea che l’operatore alchemico volesse davvero trasformare il piombo in oro. È chiaro che si tratta di una metafora. L’oro in questione è l’iniziato stesso, non il metallo. L’alchimia – vera e propria filosofia della vita – è un’ideologia di salvezza e di libertà.
Ma in fondo tutta l’arte è un atto di ricerca della salvezza… Verissimo, però l’alchimia esige certi requisiti specifici. Per esempio, che l’artista che si applica nella ricerca, trasformi davvero la realtà, o meglio, sia realmente trasformato dalla propria ricerca. Se l’artista che trasforma è trasformato dal suo stesso processo di ricerca, allora sì si può chiamare in causa l’alchimia.

[MV]  Nel momento in cui Duchamp firma la sua ruota di bicicletta, sottraendola alla realtà ed immettendola nel circuito del museo, in fondo non trasforma già la materia, non compie a suo modo un’operazione alchemica?

[AS]  Non direi, perché in fondo l’oggetto non si trasforma. Cambia di valore, ma provocatoriamente deve pur sempre restare una ruota oppure un pisciatoio. Capisco che l’immagine della merda che si fa arte è una metafora abbassata della metodologia alchemica, ma per certi versi l’operazione di Manzoni sembra parodizzare quel rito. Indubbiamente molte mitologie hanno attribuito un valore sacrale, rigenerativo all’escremento: basterebbe pensare alla pioggia d’oro, che ingravida Danae. Ma giustamente si tratta di una ritualità che interessa molti miti, non necessariamente solo l’alchimia.

[MV]  In questo senso, l’alchimia si distingue dall’ermetismo?

[AS] Direi che se l’ermetismo deriva in parte dall’alchimia, non si può dire viceversa. Certo, nell’alchimia esiste una componente ermetica, ma non è che una parte delle sue sapienze. Per esempio, so che a novembre, a Los Angeles, si sta preparando una grande esposizione sullo Spiritualismo in arte. Ebbene, credo che ci sarà soltanto un quindici per cento di coincidenza d’artisti con la mia mostra. Una percentuale bassissima.

[MV]  Pensando a certe incisioni di Dürer, di Rembrandt, a certe opere di Beccafumi o del Parmigianino, l’alchimia sta dalla parte della malinconia?

[AS]  La malinconia è un’allegoria del primo stadio del magistero, la Nigredo. Per rinascere alla luce, l’uomo deve morire.
A rileggere Platone con lo sguardo di certi filosofi di oggi, che ridiscutono il principio di non-contraddizione, (come Derrida, per fare un esempio), sembra di capire che Platone non fosse estraneo al sapere alchemico…
È cosa certa. Soprattutto in area neoplatonica si scoprono delle connessioni non indifferenti, e anche nei pensatori gnostici.

[MV]  Dunque lei non pone limiti storici all’affermarsi del pensare alchemico?

[AS]  Direi che sin dall’uomo di Pechino, cioè oltre cinquecentomila anni fa circa, troviamo tracce di questa ricerca. Cioè da quando esistono i primi riti del fuoco. Una ricerca della luce che si riassume nel gesto di Orfeo, il quale si ribella alla morte e varca la soglia dell’ai di là. Però perde Euridice, soror mystica mancata: e viene alia fine smembrato dalla Baccanti.

[MV]  Come si spiega tutto ciò, tenuto conto del ruolo essenziale e assistenziale del principio femminile?

[AS]  Perché – come sempre nell’universo archetipale – ogni simbolo è ambivalente, presenta i due aspetti, quello positivo e quello negativo. E la donna che conduce alla luce può avere anche un ruolo negativo, omicida. È la grande madre e insieme la vagina dentata.

[MV] Un altro principio alchemico, quello dell’androgino, impone che il maschio scopra in sé l’elemento femminile e viceversa. Come si concilia questo principio, con l’omofobia dei surrealisti, tanto ironizzata da Queneau, tenuto conto che lei ritiene Breton e tutti i surrealisti i teorici moderni più vicini all’alchimia?

[AS]  Effettivamente esiste una contraddizione. Anche se è vero che Rigaut e Crevel non nascondevano le loro inclinazioni, non si può negare che in questo senso i surrealisti hanno fatto fatica a rovesciare certi tabù. Ma allora esistevano delle resistenze così potenti, che probabilmente si sono lasciati contaminare da quelle fobie. E soprattutto c’è di mezzo anche una certa idolatria della donna, che questo sì, è tema molto alchemico.

[MV]  Come si spiega allora l’arte celibe di Duchamp e un’affermazione come quella di Bachelard, che suggerisce che «l’alchimia è una scienza solo per scapoli, per iniziati isolati dalla comunità»?

[AS]  Intanto Duchamp era scapolo per modo di dire, perché si è sposato in tarda età e ha avuto degli amori brucianti. Voglio dire che il tema dello scapolo è ancora una volta allegorico, dal momento che la collaborazione della soror mystica è decisiva, inevitabile. L’alchimista è solo, rispetto a una società che lo ghettizza; ma è solo in compagnia di un’altra solitudine, quella della donna che l’assiste. Ha fatto della solitudine uno strumento per raggiungere la conoscenza.

[MV]  Onestamente, lei ritiene questa sapienza alchemica un elemento discriminante per valutare gli artisti, un criterio di giudizio?

[AS]  Assolutamente no, sarei uno sciocco. È ovvio che si può essere un grandissimo pittore senza mai aver avuto a che fare con l’alchimia. Tutt’al più posso dire che considerandomi da più di trent’anni un surrealista e un cultore di alchimia, forse ho il gusto un po’ inquinato e quindi sono più sensibile a certi artisti: ma non li valuto certamente in base alla loro disposizione nei confronti di questa scienza. Per esempio, non posso negare che Braque e Matisse, per fare soltanto due nomi, siano due classici. Eppure mi interessano molto meno di altri artisti, che sento più vicini.

[MV]  C’è qualche artista che non si è interessato all’alchima e che lei vorrebbe annettere fra i suoi, trasformare in un adepto?

[AS]  Non mi va di forzare la mano di nessuno. È stato curioso, per me, rilevare con che rapidità e disponibilità grandi artisti hanno risposto al mio questionario. È scoprire invece come alcuni artisti italiani si siano sentiti stupidamente insultati dalla mia ricerca. Come a dire che uno storico dell’arte non è più nemmeno autorizzato a sostenere una sua tesi.

[MV]  La sua sezione della mostra fa parte di un’esposizione più vasta, che si chiamerà «Arte e Scienza». Non ritiene che si corra cosi il rischio di far apparire l’alchimia come una proto-scienza, come una ricerca-premessa che è poi confluita nella chimica moderna?

[AS]  Il modello alchemico di conoscenza intuitiva del mondo esterno ricorre a un approccio sintetico e globalizzante della realtà, mentre il progresso scientifico era legato, dico era perché non lo è più oggi, a una ricerca analitica e parcellare. In un certo senso, scienza e alchimia sono i due volti di una stessa avventura spirituale. Il loro rapporto non è conflittuale ma complementare.

[MV]  Ci sarà un’atmosfera particolare, che caratterizzerà questo settore della mostra?

[AS]  Ci sarà un percorso labirintico, quasi iniziatico. E il visitatore sarà accompagnato durante il suo viaggio dall’unica composizione musicale di carattere alchemico che ci rimane: «La fuga per cano-nem» del filosofo del Seicento Michael Maier, dal titolo emblematico di Atalanta figiens. In fuga verso la luce, via dalla «nigredo».

 

Copertina del catalogo della mostra “Arte e Alchimia” nella sezione Arte e Scienza alla XLII Biennale Internazionale d’Arte di Venezia del 1986, a cura di Arturo Schwarz, testi di Gillo Dorfles e Lea Vergine, edizione Electa, Milano 1986