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Terrae Motus

In occasione del mostra “Terrae Motus” al Gran Palais a Parigi, Jean Nöel Schifano intervista il gallerista napoletano Lucio Amelio . Dal “Giornale dell’Arte” n.45, maggio 1987

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“Fate Presto” Andy Warhol reinterpreta per “Terrae Motus” la pagina de “Il Mattino” del 26 novembre del 1980, tre giorni dopo l’evento tellurico

Di tutte le manifestazioni in onore della civiltà napoletana che hanno avuto luogo quest’anno a Parigi, per iniziativa di Fernando Caruso, direttore dell’Istituto italiano di cultura di rue Varenne, la più importate è probabilmente la mostra «Terrae Motus» al Grand Palais. Attraverso le loro particolari visioni del terremoto che il 23 novembre 1980 ha straziato Napoli e parte del sud Italia, artisti napoletani, europei ed americani hanno fatto di questo panico tellurico la metafora di una apocalisse delle coscienze. La catastrofe si è metamorfizzata in un avvenimento culturale di portata internazionale, grazie a un uomo poco comune, del quale una Fondazione nata sulle pendici del Vesuvio porta il nome, il gallerista cinquantenne Lucio Amelio.

Signor Amelio, perché ha istituito una Fondazione?

La mia fondazione esiste ufficialmente dal 20 novembre 1982: due anni dopo il terremoto. Al momento della catastrofe, io dirigevo una galleria già da quindici anni e avevo fatto circa seicento mostre. Un lavoro folle, ma di cui non restano tracce: una volta vendute, le opere esposte scompaiono… All’inizio, non avevo in mente di costituire una Fondazione: volevo fare una collezione e aveva sollecitato l’intervento della municipalità. Ma non esisteva municipalità né sindaco, non esisteva nulla dal punto di vista ufficiale. C’era Napoli e il vulcano prodigioso che ribolle giorno e notte. In fondo, questa carenza amministrativa è stata la nostra chance! Insieme alle mie tre sorelle, Anna, Giuliana e Lina, ho formato il nucleo originario della Fondazione. E ho avuto due donatori generosi: l’industriale napoletano della moda Mario Valentino ed il direttore del Banco di Napoli, Ferdinando Ventriglia, che ha anche concorso al finanziamento del catalogo della esposizione, pubblicato dalla casa editrice napoletana Guida. È molto importante l’aver trovato gli sponsor proprio a Napoli e non fuori. Immaginatevi «Terrae Motus» sponsorizzata dalla Coca Cola! Si sentirebbe ruggire il Vesuvio fin sulla Torre Eiffel!

Le dispiace quando ricordano che lei è un mercante d’arte?

Sfortunatamente non lo sono. Vendo dei quadri, certo, ma molto male e molto poco. Non voglio dire che mi vergogno di guadagnare denaro con l’arte: semplicemente, non è lo scopo principale del mio lavoro, che è invece quello di dare un’idea dell’arte al maggior numero di persone, anche a quelle che non acquistano quadri. Ho incontrato una grande resistenza da parte dei mercanti americani: occupati dei tuoi affari, mi è stato detto. Io non ho nulla contro il denaro, a patto che non sia denaro che distrugga le persone. Un capitale è genuino quando tutti possono approfittarne. Le sue origini sono modeste… Modeste, e nello stesso tempo grandiose come quelle di tutti i napoletani. Io mi sento una pietra vivente della città: percepisco l’energia culturale presente dappertutto a Napoli, e non solo tra gli intellettuali. Gli scugnizzi che ti portano il caffè a domicilio sono davvero pozzi di scienza, ed hanno appena una dozzina d’anni. Io sogno di essere l’ultimo principe di Napoli, ma mio nonno era spazzacamino. All’inizio degli anni ’60, sul modello tedesco delle Zimmergalerie.

Lei ha aperto la prima galleria nel suo appartamento. È stata dura?

Ma no! Fin dall’inizio, ho avuto successo: ho esposto artisti internazionali, tedeschi, e il primo era un berlinese… Avevo dato un nome assurdo alla mia galleria: Modern Art Agency! Era l’epoca della supremazia dell’America, anche nel campo artistico: gli Stati Uniti disponevano di una struttura molto potente che si occupava di tutto ciò che noi avevamo in Europa: gallerie, musei, collezionisti, tutto veniva dall’America con la pop art. A Parigi c’era Ileana Sonnabend, longa manus di suo marito Leo Castelli, che si trovava a New York: così tutto era sotto controllo. Era una organizzazione formidabile ed essi hanno svolto un lavoro meraviglioso quando si pensa che la pop art è stata esposta a Venezia nel 1964. Questa invasione degli americani portava molte idee in un’Europa che tuttavia restava assopita. La Vecchia Addormentata non si svegliava e intanto l’America bloccava le energie creatrici dell’Europa.

Sta per dirmi che allora è arrivato lei come un principe azzurro?

Se le pare. In ogni caso, ho assunto d’istinto il ruolo di risvegliare e sviluppare la nostra cultura. Il mio scopo era anche di reinserire Napoli, grande città, grande capitale – come diceva Stendhal: «Napoli e Parigi, le uniche due capitali» – in un circuito culturale internazionale: Pompei, Ercolano, Paestum e questo antro di cultura che è proprio Napoli. Ma la situazione era molto difficile. Bisognava guadagnare del denaro per poter continuare, e gli artisti, allora, quelli veri, rifiutavano di mercificarsi. Quelli dell’arte povera, per esempio, non volevano né firmare né vendere le proprie opere: volevano vendere solo merda d’artista, idee, discorsi. Non era facile per me, ma era molto affascinante dal punto di vista culturale, e mi ci sono gettato anima e corpo.

Ha cominciato con l’arte povera?

Sì, l’arte povera, che era l’esatto opposto della pop art, ben più facile e piacevole. L’arte povera era rappresentata, in Italia soprattutto, da Merz, Kounellis, Paolini e in Germania da quella figura misteriosa d’alchimista paesano che allora non conoscevo ancora, Joseph Beuys. Ben presto, molti giovani sono venuti da me e si sono entusiasmati e d’un tratto sono diventato una delle gallerie pilota in Italia per aver immediatamente registrato il fenomeno dell’arte povera, che era molto vitale a quel tempo. Ho impiegato dieci anni per riportare la città al suo posto nel mondo: la cultura internazionale ripassa infine per Napoli.

Soprattutto l’incontro con Beuys è stato fondamentale per lei.

Sì, ho conosciuto Beuys nel 1971 : è venuto a Napoli a teorizzare quello che io avevo compreso d’istinto. Ha aggiustato il mio tiro, mi ha guidato in senso europeo ed insieme abbiamo fatto un lavoro straordinario. Nel 1980 sopraggiunge il terremoto. Le scosse telluriche mi danno l’idea di scuotere le coscienze e di lasciare una traccia con «Terrae Motus». Beuys parlava di una concezione ampia di arte, di sculture sociali. E così anch’io: non voglio vendere quadri, piuttosto stabilire delle sculture sociali. Così spiego a me stesso il grande successo di «Terrae Motus»: noi abbiamo captato l’interesse della gente che se ne frega dei quadri. Per parte mia, detesto i quadri crocifissi alle pareti, non ha senso.

Come ha trovato Parigi? Non ci sono sintomi di terremoto?

Nient’affatto! E questo il problema ed è grave. Mancano sismi nelle coscienze. In questa città c’è una vita culturale meravigliosa, ma passata, e totalmente distrutta dal consumo con l’enorme drugstore che sono diventati i Champs-Elysées. Per ritornare alla frase di Stendhal, direi che Napoli, in modo paradossale, è rimasta una capitale: non ha perduto la sua identità, al contrario di Parigi che si è americanizzata. Per esempio, l’idea della Défen-se, questo malinteso sulla modernità, è una cosa orribile! E quando si pensa a che cosa ne è stato delle Halles: un disastro ecologico.

Ecologico?

Sì, la parola è fiacca. È l’arte che di fende la natura, poiché è questa falsa concezione della modernità che distrugge il mondo.
«Modernité, merdonité» ha scritto Michel Leiris.
Io sono contro la modernità e sono per cercare, nelle nostre coscienze, nelle nostre culture, le nostre radici, le nostre origini. Napoli, la civiltà napoletana che non è cambiata da mille anni, ha dunque un grande ruolo in quel senso. «Terrae Motus», movimento tellurico nella lingua di Virgilio, serve a ricordare all’Europa che noi viviamo da duemila anni di storia sulla terra che trema. Tutta la mia attività si svolge in quel senso e spero molto che Parigi ritorni ad essere la capitale europea dell’arte.

Ma come si riuscirebbe a far tremare anche Parigi?

L’Aids! Ecco una catastrofe che tocca Parigi! E un disastro, una malattia americana. Si gettano gli esseri umani
nella disperazione più totale come nelle grandi città americane: niente più amicizia né amore, solo il lavoro e l’ossessione del denaro, le coscienze distrutte da un consumismo osceno e assurdo. Questa disperazione è un disastro politico sociale ed economico ed ecologico. L’Aids è espressione della degenerazione politica e sociale americana. Hanno distrutto la natura, gli uomini, le coscienze: come si fa a non avere l’Aids? Non è una malattia sessuale, è una malattia sociale. E la vendetta della natura ed è giusto. L’Aids non è la malattia degli omosessuali, ma dei disperati. E ha il ruolo di un terremoto a livello planetario. Questa malattia muta radicalmente la vita degli uomini. Ogni essere umano dovrà di nuovo pensare: che cos’è l’amore? Non è sesso consumato come un chewing-gum. Siamo rimasti fregati dall’amore di consumo. Bisognerebbe creare una associazione per lo svilup po dell’Aids, e si comprenderà infine che la missione dell’arte è di far imparare alla gente come vivere in armonia con la natura.

Si sente come un piccolo padre per gli artisti che espone?

Non sono stato io a farli diventare artisti. Ho semplicemente creato una situazione fertile perché essi potessero esprimersi. Non si creano gli artisti: essi esistono oppure no. Creare un artista è un’idea commerciale, consumista. Gli artisti che amo vivono in perpetuo terremoto. Quelli che espongo, li amo tutti e la maggior parte non lavora da sola ma con altri uomini, come nelle botteghe del Rinascimento. E lei che ruolo pensa di avere in questo nuovo Rinascimento? Di un condottiero?
Piuttosto di un Don Chisciotte! E gli artisti sono i miei Cervantes…

Lucio Amelio, durante l’allestimento della mostra di Robert Rauschemberg nella galleria Modern Art Agency di Napoli, 1974. Courtesy Peppe Avallone