Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Una lunga intervista, un racconto segreto, il primo incontro, atteso da tempo, con un musicista che ha ispirato generazioni di artisti
[Hans Ulrich Obrist] E questo ci porta anche al suo passo successivo, dal ’62 al ’65, ovvero il gruppo con John Cale e La Monte Young, il Theatre of Eternal Music. Perché lì potevate in qualche modo spingere di più. Può parlare un po’ di questa sorta di collettivo? Voglio dire, c’è questa idea, che ora sembra lontana, dei gruppi di artisti; ma c’era un manifesto?
[Tony Conrad] No, c’era un senso di disciplina. E il senso della disciplina era in gran parte merito di La Monte. La Monte è una persona con un’enorme concentrazione e disciplina, e questo gli fa onore. La sua disciplina è così straordinaria che ancora oggi è quasi difficile scoprire cosa stia facendo. Quindi, disciplina a suo merito e a suo difetto, entrambi. Ma l’idea che questo interesse che avevamo, che condividevamo, potesse essere soddisfatto attraverso il fare, e attraverso il fare sistematico, e attraverso il fare regolarmente, e attraverso il fare ripetutamente, e attraverso il fare su base continuativa per anni, questo era molto importante. E se si fa una cosa per diversi anni, questa cambia e assume una sorta di competenza interiore e di chiarificazione, credo, che è comprensibile per qualsiasi persona che lavora. Posso aggiustarmi le scarpe. Vado a prendere della colla e mi aggiusto le scarpe. Ma se voglio aggiustare le mie scarpe davvero bene, le porto da un tizio che le ha aggiustate per trent’anni e che sa davvero come aggiustare le scarpe più velocemente e meglio di me. Quindi, quasi tutto ciò che si fa, se lo si fa sistematicamente, ripetutamente, con attenzione e con l’interesse di portare avanti la cosa, cambia, diventa più abile, si chiarisce. Ed è quello che è successo con la nostra collaborazione. Credo che questo sia familiare anche a chi si occupa di teatro. Ed è familiare anche agli artisti, ma in un modo diverso rispetto a quando l’essere artista era più artigianale.
[HUO] Può parlarne quando faremo l’intervista in pubblico, e magari anche i pezzi? Forse un’ultima domanda prima di passare alla parte pubblica della nostra intervista. Sono curioso di sapere come sia avvenuta la transizione dal suo Theatre of Eternal Music del ’62-’65 al cinema del ’66 – perché poi nel ’66 è apparso all’improvviso con The Flicker. C’è stata una sorta di rottura, o un continuum, o un’ispirazione improvvisa? Come è successo?
[TC] Oh, sono successe cose molto, molto importanti, ovviamente. Una di queste era che ero entrato in contatto con la scena cinematografica underground, e soprattutto con Jack Smith**. E per me era chiaro che si trattava di un filone culturale, di una corrente culturale, di una forma culturale che si era in qualche modo posizionata al di fuori dell’istituzione, in larga misura.
[HUO] Un underground.
[TC] Era un underground. Sì. E Jonas Mekas***
[HUO] E Jonas Mekas?
[TC] Era forse il più “overground” di tutte le persone coinvolte, perché scriveva; vedeva le chiare connessioni con il lignaggio.
[HUO] Quindi avete scoperto che quello era una sorta di spazio extra-istituzionale, una sorta di spazio autonomo….
[TC] Sì, non si trattava di uno spazio museale o di una galleria. Quindi….