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UGO MULAS

Il suo primo servizio fotografico sulla Biennale di Venezia, nel 1954, individua quello che sarà un rapporto duraturo e amorevole col mondo dell’arte.

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Max Ernst ritratto da Ugo Mulas sul traghetto, Biennale di Venezia, 1954, © Ugo Mulas – Courtesy GAM – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino – Proprietà della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT

«Max Ernst a Venezia» (1954) di Ugo Mulas. Collezione Massimo Prelz Oltramonti

Non sarebbe esatto parlare, per Ugo Mulas, di «conversione» allorchè, in occasione del suo primo servizio fotografico sulla Biennale di Venezia, nel 1954, individua quello che sarà un rapporto duraturo e amorevole col mondo dell’arte. Il giovane fotografo ha già alle spalle, a quella data, dopo l’inclinazione poetica che caratterizza i suoi primi anni milanesi, la frequentazione della scuola libera del nudo di Brera, dove approda per una tipica sbandata di gioventù verso la pittura, ma soprattutto le serate al Caffè Giamaica, dove incontra Crippa, Dova, Peverelli, Morlotti e Cassinari, e già pensa, in alternativa al disegno, ad esprimersi con la fotografia.

Venezia, caso mai, rappresenta una nuova tappa, un luogo,meglio, un palcoscenico, da animare con gli attori più congeniali al suo obiettivo: se a Milano erano gli artisti amici di ogni giorno, alla Biennale sono le prime star internazionali, il trampolino che avrebbe portato Mulas ai lunghi amichevoli soggiorni nelle case degli artisti a New York e ad un suo memorabile libro. La serie di fotografie ora raccolte in un volume da Mondadori, a suo tempo in gran parte pubblicato da Bolaffi Arte, ripropone i primattori della mostra veneziana, prendendo in considerazione gli anni dal ’54, appunto, al ’70. Il 1954 è l’anno di Max Ernst, che vince il Gran Premio Internazionale, con una retrospettiva nel padiglione centrale: per Mulas, che pure dichiarerà in seguito che «fondamentale sarebbe una serie di immagini deserte, senza persone», non è tanto l’opera d’arte che interessa, quanto il senso dell’evento, la gente, i personaggi di primo e secondo piano.

È un reporter che vuole fissare nel fotogramma una pagina di storia; la gente vuole sapere com’è il mitico Ernst; ecco allora una foto del grande surrealista sul vaporetto con la luce trasversale della sera, ma è anche un’immagine dove la star della Biennale ’54 è accanto ad una scul tura. Una foto del ’60 mostra Guttuso che fa salotto nell’ambiente assegnatogli per l’esposizione di 16 quadri recenti: riconoscibilissimo lui, attento a voltarsi di scatto verso il fotografo, tra il suo piccolo auditorio. In quell’anno la mostra storica è dedicata al Futurismo: l’accettazione della compiuta parabola storica del movimento, a cinquant’anni di distanza dal primo Manifesto marinettiano, è riassunta nella deferenza dell’ossequio del critico Valsecchi al vecchio Severini. L’altro reduce è Carrà, a colloquio con Cesare Peverelli nel padiglione centrale: è un passaggio di consegne, un trascorrere di generazioni la cui iconografia comprende la posa di Emilio Tadini, quasi un turista sorridente davanti alla Bocca della Verità, meta di infinite comitive in visita a Roma. Il monstrum qui è Boccioni, di cui è esposto un capolavoro, il celeberrimo bronzo «Forme uniche nella continuità dello spazio», del 1913.

Mulas fotografa Giacometti, alla Biennale del ’62, dopo un autentico apprendistato sulla scultura, esercitato a Spoleto, dove ha fissato le immagini di Calder e David Smith, e documentato il furor creativo di Consagra e Arnaldo Pomodoro seguendoli nelle officine e nelle fonderie. Che l’orecchio esercitato al giornalismo del fotoreporter capti le voci di corridoio che indicano nello scultore svizzero il vincitore del Gran Premio, è un fatto di pura professionalità. Quel che importa è la compenetrazione totale nella personalità di Giacometti così come la identificò l’esistenzialismo sartriano («non conosco nessuno che sia come lui tanto sensibile alla magia dei visi e dei gesti; li guarda con voglia appassionata, come se lui fosse di un altro regno»). Giacometti si aggira piccolissimo e piegato, nella foresta delle sue lunghe figure: il fotografarlo indaffarato negli ultimi ritocchi all’allestimento non fa che dissipare quel briciolo di retorica cui pure il tema si presterebbe.

Di più: non esita, Mulas, a confermare quanto Carlo Battaglia scrisse dell’artista («Giacometti, scultura di se stesso»): ed ecco allora la tormentata materia di una testa fusa nel bronzo comparata ai tratti tormentati del viso dell’autore, ripreso in flagrante nella indiscutibile somiglianza con le sue creature. E una sequenza, quella di Giacome ti del ’62, dove la coppia artista-opera d’arte si congiunge al limite estremo, un capolavoro quando e forse ancor più di quella altrettanto celebre di Duchamp a New York. Una identificazione con l’artista e la sua opera che avrebbe sublimato (ma nei tempi lenti, meditati dello studio, anziché nell’istintiva intuizione del fotoreportage) nelle foto di Melotti e, a parer nostro, meno in quelle del pur amatissimo Calder.

Già nel Sessantotto Mulas torna a guardare alla Biennale come ad un evento particolare della contemporaneità, cronaca prossima a diventare storia, come testimonia il ritratto di Pino Pascali nella sua sala; in fondo è un visitatore come gli altri, catalogo sottobraccio, un occhio alle opere che i non addetti ai lavori non sospetterebbero di sua mano: quel che ci resta del Pascali qui fotografato e, scomparso tragicamente pochi mesi dopo, sono le lunghe basette, il foulard stretto al collo, i sandali, rimasti, oggi, tra i simboli della gioventù contestataria degli anni Sessanta.

E quel che resta di Mulas, che pure ci ha prematuramente lasciati, sono queste sue foto, questa istintiva, geniale capacità di guardare le opere e gli artisti che negli ultimi trent’anni nessun altro fotografo sarebbe più riuscito a uguagliare.

Ugo Mulas, ritratto di Giacometti intento ad allestire le sue sculture alla Biennale del 1962, © Ugo Mulas

Ugo Mulas, ritratto di Marcel Duchamp, New York 1965, © Ugo Mulas

Ugo Mulas, ritratto di Pino Pascali nella sua sala con Archetipo, Pelo, Contropelo, Il cesto, Solitario (1968), Venezia, Biennale 1968, © Ugo Mulas

Ritratto di Ugo Mulas, ph. Antonia-Mulas, © Ugo Mulas

Ugo Mulas, L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander 1971. Fotografie Ugo Mulas, © Eredi Ugo Mulas