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Catherine David*, la curatrice di Documenta X (Vol. 1/4)

La prima curatrice donna a dirigere la quinquennale rassegna nella città di Kassel nella decima edizione del 1997.  Curatrice dal 1990 presso il Jeu de Paume, ha al suo attivo collaborazioni con il Centre Pompidou, dove ha curato nel 1987, con Bernard Blistène e Alfred Pacquement, la mostra «L’Époque, la mode, la morale, la passion», con una spiccata penchant per l’arte sudamericana, persegue un filone strettamente legato al dernier-cri, di un’arte imperniata su emergenze etniche e sociali

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Catherine David, direttrice di documenta X, fotografata davanti alla grande X rossa, controverso logo dell’edizione. ph. © Oliver Berg

Dal “Il Giornale dell’Arte” n. 154, aprile 1997

Catherine David presenta la più misteriosa edizione della quinquennale rassegna: nessuna anticipazione sui nomi,molte digressioni su che cosa non dev’essere una manifestazione culturale alle soglie del Duemila.

TORINO. 3 marzo 1997, Palazzo Barolo ore 11:00:

Madame Documenta si manifesta al pubblico italiano. L’esordio è agghiacciante: «Voglio preservare Documenta dall’aggressione dei media». Non male per un direttore artistico che per presentare la decima edizione della quinquennale rassegna ha predisposto una intercontinentale maratona di conferenze stampa. «Non darò in pasto ai giornalisti i nomi di giovani artisti», rincara la dose Catherine David. L’imperturbabile direttrice ha ribadito il 3 marzo a Torino che quella di Documenta «non è una formazione calcistica», anche se lei sembra fare pretattica come il più consumato degli allenatori. Niente nomi, dunque, se non quelli di alcuni mostri sacri defunti o viventi, tra cui Michelangelo Pistolet-to, peraltro seduto al fianco della David a raccontare del ’68, quando lui era un giovane esordiente spedito a Kassel dalla sua gallerista Ileana Sonnabend. Tempi di contestazione, di una Biennale di Venezia che aveva trovato discutibile un suo progetto e di lui che polemicamente non si presenta. Erano i tempi di Joseph Beuys, e Pistoletto non perde l’occasione per definire i rispettivi ruoli: il tedesco un santone, lui il profeta. Come tale verrà inserito dalla David nella sezione storica della mostra, al fianco di Broodthaers, Gordon Matta Clark, Nancy Graves, Garry Winogrand, Ha-milton e Gerhard Richter, oltre a Oticica: «un outsider», spiega la David nel suo credo anni Settanta, perché «l’arte non è
soltanto mercato, è un sistema». Inedita è la definizione con cui la David battezza questa sezione storicizzata: «Non una retrospettiva ma una retro-prospettiva, con opere che pongono domande in un momento di accademia e di reazione». Lo slogan della prossima rassegna è infatti «nessuno slogan, molti interrogativi». Sembra di essere tornati al ’77, quando la parola d’ordine era «mettersi in discussione»: così la David trasforma la conferenza stampa in una conferenza e basta, e invece di riempire i taccuini spianati con qualche indicazione che già non si trovi nella cartella stampa, discute retroprospetti-vamente del mutato ruolo di Documenta in nove edizioni. A supporto, nella sala oscurata, una proiezione di diapositive che raffreddano nei numerosi profani presenti (convogliati a Palazzo Barolo dall’organizzazione Goethe Institut), eventuali progetti di una gita fin lassù, e neutralizzano l’ottimistico messaggio del dépliant contenuto in cartella stampa che invita tutti a «Kassel città meravigliosa». Proiettato sotto gli stucchi del palazzo barocco si vede, tra l’altro, il Fridericianum contornato dalle rovine dei bombardamenti, e la David rimarca la posizione geopolitica di Kassel, a cavallo tra le due Germanie negli anni della ricostruzione e della separazione e l’importanza di Documenta come alternativa culturale e politica quando il dialogo era tra Washington e Bonn. Ma nel dopo-Muro tutto è cambiato, e la cultura deve allargare i suoi
orizzonti alle realtà asiatiche e africane (di otto anni fa, tanto vale ricordarlo, sono i «Magiciens de la Terre» convocati da Jean-Hubert Martin al Centre Pompidou); così come, defunto il «white-cube», le mostre devono invadere gli spazi del quotidiano e riqualificarli (nel ’73 Achille Bonito Oliva allestiva la sua «Contemporanea» nei garage di Villa Borghese; dell’86 sono le «Chambres d’Amis» di Jan Hoet a Gand). Così Documenta X si dipanerà su un percorso che ha come punto di partenza la vecchia stazione ferroviaria con relativi sotterranei costruiti negli anni Sessanta, prosegue sulla Treppenstrasse, prima isola pedonale progettata nella Germania del dopoguerra, raggiunge il Fridericianum, «spazio, secondo la David che di queste cose se ne intende, un po’ noioso», comunque idoneo ad ospitare opere particolarmente fragili; poi l’Ottoneum («vi allestiremo lavori sul tema dello spazio nelle megalopoli») e la Documenta Halle, che la direttrice definisce «eresia architettonica post-moderna, spazio grottesco costruito nel 1992 per monu-mentalizzare Documenta»; la conclusione è fissata all’Oran-gerie, destinata ad accogliere «opere concepite come progetti». Niente sculture all’aperto («ce ne sono già troppe a Kassel»), ma largo spazio (quasi fosse una novità) a performance, teatro, musica, cinema e dibattiti tra scrittori, filosofi, architetti, ecc. nei 100 giorni (21 giugno-28 settembre) di apertura. Questo perché il secondo tabù dopo quello dei nomi è la parola «mostra»; tanto che è anche proibito parlare di catalogo: al suo posto, un bel libro-ne scandito in tre sezioni (1945-1967; 1968-1969; 1969-1997); se poi qualcuno dei 500mila visitatori attesi insiste, sarà predisposta una guida alla manifestazione, addirittura «con la riproduzione di qualche immagine delle opere». Catherine David dichiara apertamente di sentirsi investita di un compito immane, tale da far passare in secondo piano quisquilie come nomi e cognomi, struttura della rassegna, eventuali collaboratori: «E l’ultima Documenta del secolo» afferma solenne, e non risparmia poco sportive critiche ai suoi predecessori che «negli anni Ottanta hanno trasformato Kassel in una delle tante tappe della maratona estiva»; oggi si tratta di considerare Documenta, fenomeno anche «politico» (e dagli) per «come è stata e come sarà». Al mutismo e rassegnazione imposti dalla direttrice si adeguano le nuche corrugate dei due tenenti dell’esercito due file più avanti; alza interrogativo il sopracciglio Gilberto Zorio, che in fondo alla sala ascolta le profezie del collega Pistoletto; possiamo immaginare cosa passi per la testa dell’emergente pittore Pierluigi Pusole quando la David assicura che «i giovani artisti invitati a Kassel mi hanno ringraziato per la discrezione, perché in questo modo, non disturbati dalla stampa, possono lavorare più serenamente». Anche se qualche giornalista in una delle precedenti tappe della conferenza stampa deve averla mandata a stendere, generalmente il pubblico dell’arte contemporanea è praticante e osservante; così, in sede di dibattito, nessuno si azzarda a porre domande imbarazzanti. Al docente d’Accademia preoccupato per un’eventuale antipatia della David per i media tecnologici, la direttrice risponde che non ci sarà alcuna preclusione, ma neanche un’enfasi «trionfalistica» sul potere del computer. Quasi una premonizione, questa, poiché di lì a qualche giorno una schermata Internet, nel sito della tedesca «Blitzreview», svelava la segretissima lista** (non confermata né smentita dalla curatrice). Alla domanda della reporter di una rivista femminile che ha la malaugurata idea di chiedere quale spazio sarà concesso in mostra alle donne, infine, il ciuffo punk-post-femminista della David (che per tutta la durata della conferenza premette alla parola Documenta l’articolo «la») ha un fremito scocciato: più che donne-artista, «ci saranno donne che svolgono professione d’artista, come i loro colleghi uomini»; in effetti almeno una cosa è chiara: non sarà una Documenta politicamente corretta ma correttamente politica.