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Christine Macel*: L’arte è in sé un atto di resistenza

“Lo è anche quando non è apertamente politica”, dice Christine Macel, direttrice della 57ma edizione della Mostra internazionale d’arte della Biennale di Venezia del 2017. “Ci sono tante cose contro cui è necessario resistere. Non soltanto la riduzione dell’opera d’arte a un valore commerciale, ma anche la mancanza di significato e l’appiattimento al reale. L’arte è sempre consistita nell’aggiungere dei supplementi al reale”

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Christine Macel a Venezia posa davanti all’isola di San Giorgio Maggiore, 2017

Dal "Giornale dell’Arte" web del 7 maggio 2017

Christine Macel è di casa alla Biennale di Venezia, di cui ora è curatrice: nel 2007 è stata commissaria per il Padiglione del Belgio e nel 2013 di quello francese. Dirige la mostra d’arte contemporanea più importante nel mondo, la cui storia spesso si è intrecciata con la macrostoria, in una fase in cui tutto sembra congiurare contro gli ideali e le utopie dell’arte: le tensioni internazionali, il ritorno ai particolarismi nazionalistici, l’ascesa del populismo, le migrazioni di massa, il consolidamento di nuovi regimi autoritari, il terrorismo globale, la nuova povertà. Dopo una Biennale apertamente politica, come quella diretta due anni fa da Okwui Enwezor, la quarantottenne curatrice e storica dell’arte parigina, che in passato ha svolto importanti incarichi istituzionali (è stata ispettrice della Délégation aux arts plastiques e conservatrice al Musée National d’Art Moderne-Centre Pompidou), si affida ai diversi poteri (anche sciamanici) di cui l’arte e gli artisti potenzialmente dispongono, sotto un titolo che suona anche come uno slogan e un incoraggiamento: «Viva Arte Viva». Un «allons enfants» che si svolgerà, con la partecipazione di 120 artisti, ai Giardini di Castello e all’Arsenale dal 13 maggio al 26 novembre. La politica, beninteso, non sarà assente: il prologo della 57ma edizione della Mostra internazionale d’arte della Biennale di Venezia è stata l’assegnazione del Leone d’Oro alla carriera a Carolee Schneemann (Pennsylvania, 1939), una performer che ha fatto dell’impegno sociale e della lotta per i diritti delle donne i moventi della sua opera.

Abbiamo intervistato Christine Macel alla vigilia dell’inaugurazione.

Con l’inizio del secondo millennio le biennali, e non solo quella di Venezia, si sono progressivamente interessate all’opera di artisti scomparsi o non più giovanissimi. A che cosa si deve questa tendenza? È un sintomo di insicurezza nei confronti dell’arte del presente, che sembrerebbe avere bisogno di ancoraggi sicuri e comunque storicizzati nel passato?

Personalmente, in qualità di storica dell’arte, mi sono sempre interessata ad artisti di tutte le generazioni. La mia prima mostra al Centre Pompidou è stata quella di Raymond Hains, che aveva più di settant’anni. Non amo le categorie né l’eccessiva valorizzazione dei giovani. Il fatto che esista una sorta di ossessione per gli artisti emergenti ha lasciato da parte numerosi artisti di grande valore che lavorano da decenni, spesso nell’ombra, ed è giusto esporli, o perché sono scomparsi troppo presto o perché non hanno avuto un sufficiente riconoscimento. Allo stesso tempo, come si dice in Francia parafrasando Corneille, per essere valorosi non occorre essere vecchi, e quindi mi sono sempre interessata anche a sostenere i giovani.

Eppure lei è nota anche per il sostegno offerto ai giovani artisti. Come li ha scelti per la Biennale? È possibile individuare nelle loro ricerche e all’interno della loro generazione alcune costanti, alcuni punti in comune?

Non ho scelto gli artisti più giovani, così come non ho scelto quelli più maturi. Sono in costante ricerca e le mie scelte non si limitano alla Biennale ma riguardano una pratica quotidiana e internazionale dell’arte. Scelgo delle individualità, mai delle tendenze. E rispondere alla sua domanda sui punti in comune all’interno di una generazione o tra più generazioni potrebbe essere l’argomento di un libro. Per la Biennale ho scelto di focalizzarmi su alcune problematiche sollevate dagli artisti, che sono i nove capitoli del mio percorso.

Questa Biennale sembra riassegnare all’immaginario e alla visionarietà degli artisti un ruolo costruttivo e beneficamente utopico rispetto alla vita quotidiana e alla formulazione di ipotesi per il futuro. Si parla di una biennale antitetica a quella, molto politica, del suo predecessore, Okwui Enwezor. Ma non pensa che in realtà si tratti delle due facce della stessa medaglia, in cui si riattribuisce all’arte un valore e un potere non riducibili esclusivamente alle logiche di un sistema dominato dal mercato e che può neutralizzare il potenziale beneficamente eversivo dell’arte?

Non ho concepito la mia Biennale in opposizione a quella di Okwui Enwezor, di cui apprezzo molto l’operato. Consiglio a questo proposito la sua mostra «Postwar» alla Haus der Kunst di Monaco e il relativo catalogo. Nella mia Biennale ci sono molte questioni politiche, ma non ne ho fatto il tema centrale perché è impossibile per me prendere in considerazione solo questo aspetto dell’arte e soprattutto invitare unicamente quegli artisti intenzionati a seguirlo. In compenso, alcune proposte trattano la politica nel senso della polis greca e non dell’attualità immediata. Ad esempio, ho messo al centro della mia riflessione la dialettica dell’otium e del negotium, che interroga il ruolo degli affari e del lavoro nella vita contemporanea e che mette anche in luce il desiderio di investimento nella vita pubblica da parte di alcuni artisti come Olafur Eliasson, con il suo progetto «Green light». In breve, non amo le opposizioni binarie e guardo i due lati della medaglia, che cerca di rimettere al centro l’arte e gli artisti. Come mi piace ripetere, l’arte è in sé un atto di resistenza, e non solo quando è apertamente politica. Ci sono tante cose oggi contro cui è necessario resistere, non soltanto la riduzione dell’opera d’arte a un prodotto o a un valore commerciale, ma anche la mancanza di significato, l’appiattimento al reale. Per me l’arte è sempre consistita nell’aggiungere dei supplementi al reale.

Presentando la mostra «Viva Arte Viva» ha citato l’umanesimo. Che cosa intende con questo termine?

Ho parlato di umanesimo soprattutto per dire che non naviga in buone acque, il che è una sorpresa: Achille Mbembe (filosofo di origine camerunense, Ndr) ha addirittura parlato di fine dell’umanesimo. Quello che però vorrei aggiungere è che non bisogna abbandonare l’idea di costruire un mondo in cui i valori umani più importanti vengono al primo posto. E l’arte in questo senso ha avuto storicamente un ruolo fondamentale. Per questo ritengo che il ruolo, la voce e la responsabilità dell’artista, ma anche dello scrittore ad esempio, siano più che mai cruciali.

Ha riesumato anche l’espressione «sciamano»: c’è qualche legame con i «magiciens de la Terre» di  Jean-Hubert Martin?
Questo concetto viene piuttosto da Joseph Beuys e anche da un riferimento più etnologico. Lo «sciamano» è l’artista che sviluppa una visione, che si sente investito di una missione curativa. In questo senso Beuys è un artista che ha riaperto una strada che ha un futuro brillante. Ernesto Neto con gli Huni Kuin dell’Amazzonia, Ayrson Heráclito o ancora Jelili Atiku, per citarne solo alcuni, sono artisti che possiedono questa visione.

La sua Biennale si preannuncia con una struttura che ricorda, almeno nel «contenitore», quella, divisa per padiglioni tematici, delle Esposizioni Universali d’inizio ’900, se non quella degli attuali Expo. Mi chiedo se le biennali, soprattutto quella di Venezia, non finiscano per ricoprire lo stesso ruolo, quello di luccicanti vetrine di un mondo che, nella realtà e dietro le quinte, è governato da logiche feroci, legate al mercantilismo più sfrenato, alla speculazione, allo sfruttamento dei giovani artisti, all’ipocrisia della correttezza politica, alle mode e ad altri inquietanti aspetti. Che cosa risponde?

Il mio primo riferimento sono piuttosto i padiglioni cinesi e la Città Proibita di Pechino, con i suoi diversi padiglioni, dove lo spazio diventa un universo. La mia Biennale vuole essere un viaggio, un’esperienza che porta lo spettatore dalla dimensione del soggetto a quella del collettivo, passando per l’ambiente, aprendosi verso dimensioni più speculative, siano esse scientifiche o spirituali. Il modo migliore per resistere a quello che lei descrive è vedere le cose attraverso un prisma differente.

Si dice che lei non ami particolarmente la pittura. In quale misura è presente nella sua Biennale?

Si dicono tante cose e sono sbagliate. Sono una storica dell’arte, come potrei non amare la pittura? Durante la mia attività al Musée National d’Art Moderne, ad esempio, ho fatto entrare in collezione diversi quadri, da Jonathan Meese a Edi Hila, passando per Miriam Cahn. In questa Biennale ci sono numerosi pittori: Firenze Lai, Marwan, Mc Arthur Binion, Giorgio Griffa, Riccardo Guarneri. Ma non mi sono mai legata a una forma espressiva in particolare, perché ciò che mi interessa è più che altro come l’artista usa la sua tecnica.

Molti curatori di biennali o di mostre pubbliche si appellano, per l’elaborazione di un tema, a un testo, a un saggio, a libri e spesso ad altre discipline, più legate alla filosofia, alla biologia o all’antropologia che allo specifico dell’arte. I «pensatori d’arte» hanno perso la loro autonomia, visto che hanno sempre più bisogno di tutori esterni?

Sono d’accordo con lei sull’abuso di riferimenti che a volte servono a giustificare mostre e opere. Penso che uno storico dell’arte abbia necessariamente una cultura aperta sui diversi campi della conoscenza, e che la storia dell’arte si sia sempre nutrita di queste discipline e reinventata grazie a loro.
Gli stessi artisti si nutrono di questi ambiti e voglio metterlo in evidenza nella mia Biennale, ad esempio con il progetto «Unpacking my library» (La mia Biblioteca). Quindi da parte mia, senza richiamarmi a un mentore in particolare nel campo intellettuale, direi piuttosto che tutti i miei studi e le mie letture sono assolutamente necessari per quello che faccio.

Può entrare nello specifico del «Padiglione degli artisti e dei libri»?

Come le dicevo, mi sembra importante penetrare il mondo degli artisti per comprenderne la pratica. Il primo capitolo della mostra evoca questo aspetto, così come i progetti paralleli che ho sviluppato a partire da questo prologo: il catalogo, che è interamente dedicato agli artisti, con numerosi documenti, immagini e testi forniti da loro; il progetto dei brevi film «Pratiques d’Artistes», che è già online da febbraio sul sito della Biennale e che permette di scoprire un artista al giorno attraverso un film realizzato dall’artista stesso; o ancora il programma Tavola Aperta, che propone di parlare informalmente con un artista durante un pranzo, in streaming e poi in archivio sul sito internet della Biennale. Nel Padiglione degli artisti e dei libri, e preciso che i padiglioni non saranno separati visivamente ma concettualmente, susseguendosi con fluidità, ho scelto delle opere che interrogano l’arte stessa, la pratica, lo spazio dello studio, il rapporto con la conoscenza o la storia dell’arte ecc.

Mi incuriosisce anche il Padiglione delle Tradizioni. Quando si parla di passato e di archeologia, se non di nostalgia, si toccano argomenti molto sentiti, soprattutto da parte degli artisti italiani. E spesso sono posizioni molto pericolose. Come verrà affrontato il tema del passato nella sua Biennale?

Non si tratta della tendenza recente a tornare sul passato o a focalizzarsi sull’archeologia: si tratta piuttosto di una riflessione più generale. La stessa parola «tradizione» non è considerata nel modo giusto, perché la tradizione è tutto ciò che la modernità ha rifiutato, fino a ridiventare essa stessa tradizione. Ciò che mi interessa qui è il rapporto con la storia di lunga durata da parte di certi artisti che reinventano qualcosa a partire da essa e intrattengono un dialogo fecondo con la storia che li ha preceduti: Teresa Lanceta, ad esempio, grande conoscitrice della storia del tappeto tradizionale e modernista, che tesse lei stessa ispirandosi al tappeto marocchino tradizionale, o Gabriel Orozco, che mette a confronto le tradizioni architettoniche giapponesi del XIX secolo e quelle del Modernismo.

Quante opere sono state concepite appositamente per questa Biennale?

Una cinquantina, da Dawn Kasper ad Andy Hope 1930 al Padiglione centrale, ad Attila Csorgo, Michael Beutler o Erika Verzutti al Giardino delle Vergini.

C’è stato almeno un artista che, invitato alla sua Biennale, ha detto «no, grazie?». Oppure qualche artista che avrebbe desiderato invitare ma che per vari motivi non ha potuto?

C’è un artista che non ha voluto partecipare e posso capire che serva un certo desiderio ed energia per lanciarsi in questa avventura! E un artista che non ho potuto esporre perché non è stato possibile ottenere opere in prestito. E molti artisti che avrei voluto invitare… sarà per un’altra mostra.