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Giuseppe Panza di Biumo*

Perché sono costretto a vendere: storia di un prestito, di un processo e di una collezione troppo grande. Da “Il Giornale dell’Arte” n° 5, settembre 1983

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[Giornale dell’Arte]  Dottor Panza, 80 suoi quadri in cerca di una dimora, vaganti per l’Europa: da quanti anni?

[Giuseppe Panza di Biumo]  Li ho esportati in via definitiva in Svizzera nel 1974 in seguito al contratto di prestito con Monchengladbach, un museo allora inesistente, che doveva ancora essere costruito dall’architetto Hollein. Conoscevo già il direttore Cladders che nel 1960 aveva fatto mostre di Carl Andre, della Darboven, di Richard Long, tutti artisti che io collezionavo. Era la proposta più concreta, tutti gli altri musei non avevano spazio per questi 80 quadri da esporre tutti assieme. Siccome il deposito doveva durare 15 anni, non era possibile una temporanea esportazione per tale durata. Ho quindi pensato di aggirare l’ostacolo facendo una vendita definitiva a un trust nel Liechtenstein, di mia proprietà, e in questo modo ho risolto il problema. Allora era possibile perché, anche se fosse stato scoperto che il trust era mio, avrei pagato una multa di circa 300 mila lire.

Nel 1975 per una crisi economica in Germania, il museo rimase senza finanziamenti. Si è fatto avanti Schmalenbach, direttore del museo regionale di Dusseldorf, che aveva un progetto per costruire un nuovo museo. Schmalenbach aveva una collezione formidabile, splendida, solo di capolavori. Sarebbe stato ideale accoppiare le due collezioni: la mia che copriva gli anni e, gli artisti che la sua non aveva. Con la legge valutaria nel 1976, fui costretto a denunciare e sciogliere il trust. Ho chiesto di mantenere le opere d’arte all’estero perché erano prestate ma la legge non lo consente: dovevo o importarle, e pagare l’IVA del 18-20% sugli artisti morti perché era stata fatta un’esportazione definitiva, o venderle all’estero e far rientrare la valuta. Mi sono quindi trovato nell’impossibilità di concludere il contratto con Dusseldorf e a dover ipotizzare la vendita all’asta e quindi la dispersione di questa collezione che mi era costata molti anni di ricerche e faceva parte della mia vita. Christie’s ha valutato la collezione tra i 12 e i 15 milioni di dollari.
Ho allora fatto il possibile per trovare un museo che fosse disposto ad acquistarla in blocco. Purtroppo, Dusseldorf dovendo spendere 70 milioni di marchi per il nuovo museo, non poteva, per 3 anni, prendere altri impegni. Ma io non potevo rimandare di 3 anni e correre il rischio di essere processato un’altra volta. Ho quindi trovato la possibilità di Los Angeles, il cui Museum of Contempora-ry Art è in costruzione.

[GdA]   Esiste già un altro museo a Los Angeles.

[GPB] Il County Museum che ha anche una sezione di arte contemporanea, ma non è specializzato. L’arte contemporanea a Los Angeles è invece molto importante.

[GdA]   In Italia non v’era alcuna possibilità?

[GPB]  V’era stato un intervento della dottoressa Bucarelli, ma l’ultima idea che mi sarebbe venuta in mente sarebbe stata quella di mettere i quadri nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma il cui edificio è molto bello, ma la cui collezione non è adeguata ad opere di importanza internazionale.

[GdA]  Non c’è stato un rapporto anche con Basilea?

[GPB]  Sì, ma per altre opere. A Basilea ho imprestato una quarantina di opere che vengono esposte a rotazione nel nuovo museo di arte contemporanea finanziato dalla Fondazione Hoffmann. Sono opere di arte minimal e concettuale che penso di riportare indietro.

[GdA]  Quali sono le 80 opere in questione?

[GPB]  Vi sono sei otages di Fautrier degli anni 1944-47, 14 Tàpies degli anni 1955-58, 7 Rothko degli anni 1951-60, 12 Kline 1950-60, 11 Rauschenberg 1954-60,16 Oldenburg 1960-62, 4 Lichtenstein 1960-62, 8 Rosenquist dello stesso periodo e 2 Segal 1967-69.

[GdA]  Le rimangono altre opere di questi artisti?

[GPB]  No. Sono tutte le opere che avevo comperato tra il 1956 e il 1962.

[GdA]  Quale è stato il suo esordio come collezionista?

[GPB]  Fin da ragazzo ho sempre avuto passione per la pittura. Mi sono laureato in legge, ma il mio tempo libero l’ho sempre dedicato allo studio dell’arte e alla lettura dei classici della letteratura e della filosofia. Ho subito scartato gli artisti famosi perché non avevo i soldi per comperarli e la seconda scelta non mi interessava. D’altra parte cercare il nuovo è proprio l’aspetto più affascinante e stimolante del collezionismo.

[GdA]  Non ha mai fatto acquisti di impulso?

[GPB]  No, perché ho sempre avuto grande diffidenza verso i miei istinti e verso le mie emozioni, ho sempre lasciato decantare, non ho mai acquistato una cosa perché mi piaceva, prima ho sempre voluto vedere molte fotografie, molta documentazione, esaminarle con calma a casa mia la sera, riguardare le fotografie decine di volte, ogni giorno, una settimana dopo, e poi ancora fare confronti con le fotografie di altri artisti paralleli o vicini. Un lavoro che mi portava via dei mesi, ma quando lo avevo finito ero sicuro che quell’artista era quello che cercavo, era l’artista che amavo veramente. Allora compravo non un quadro o due ma tutti i quadri che potevo e che avevano quella qualità che a me interessava.

[GdA]  Nella sua collezione ci sono tuttavia delle clamorose assenze. Come mai?

[GPB]  La mia non è una collezione sistematica. Non ho mai acquistato qualche cosa di un artista perché se ne parlava. Ci sono delle lacune molto gravi proprio per questa ragione. O perché l’artista non mi piaceva, sbagliando, o perché non avevo l’occasione di comperare. Ad esempio, di Jasper Johns non ho niente perché faceva pochi quadri e i collezionisti che vivevano a New York nel 1959-60 quando io comperavo i Rauschenberg, li potevano scegliere prima di me. Non ho mai comperato un quadro senza prima averlo visto, pensato e considerato.

[GdA]  Ha dei rimorsi?

[GPB]  Moltissimi. Avrei potuto prendere un Pollock nel 1956, un quadro anomalo, un drip-ping su vetro, molto grande 2 x 1,5 metri, che costava solo, mi pare, 4-5 mila dollari, una cifra ridicola. È poi andato in un museo importante. Sento la mancanza di Barnett Newman. L’ho conosciuto a New York nel 1960. Nel suo studio c’erano quadri stupendi, molto grandi che era disposto a vendermi per 6 mila dollari, ma 6 mila dollari erano tanti soldi per me. Con 6 mila dollari comperavo 4 o 5 Rauschenberg oppure diversi Kline. Rinunciare a tre o quattro Kline per un quadro di Newman mi sembrava sbagliato.

[GdA]   Il plusvalore della sua collezione è immenso. Prova orgoglio per la sua perspicacia sotto questo aspetto?

[GPB]  Io non avevo mai pensato di vendere la mia collezione: ho passato mesi terribili quando ho dovuto prendere questa decisione, certamente i peggiori della mia vita di collezionista e tra i peggiori della mia vita in assoluto. D’altra parte, se questi quadri arrivano a Rivoli e diventano proprietà permanente di unmuseo italiano, io sono felice, anche se questo mi costa 7 miliardi nei confronti dei 20 miliardi che potrei prendere fra tre mesi da Los Angeles. Né m’interessa la gratitudine pubblica o privata. Sono stato talmente fortunato e privilegiato, del resto, negli acquisti che ho fatto per cui qualsiasi soluzione è ottima. Non ho mai cercato un interesse economico in quello che ho fatto come collezionista, mentre nel mio lavoro dove ho sempre cercato il guadagno ho perso dei soldi.

[GdA]   Quale momento le ha procurato maggiore gratificazione?

[GPB]  Il momento della scoperta di un artista che ritengo importante. È una cosa stupenda. Un’altra cosa che mi ha dato l’arte, è la possibilità di condividere con un numero infinito di persone una stessa passione, uno stesso amore, uno stesso interesse. Ciò è di una estrema bellezza. Se posso, accompagno con grande piacere tutte le persone che mi chiedono di visitare Varese: vedere che altre persone amano quello che io ho amato è una cosa stupenda.

[GdA]  Con qualche persona ha stabilito rapporti personali di particolare stima?

[GPB]  Con molti galleristi, con Sperone, per esempio, con Guido Le Noci, scomparso pochi mesi fa, che mi ha molto aiutato all’inizio della collezione. Con Pierre Restany, Germano Celant, Leo Castelli, Tommaso Trini. Con gli artisti, purtroppo, vivendo io in Italia ed occupandomi di artisti stranieri, non ho avuto rapporti durevoli e continuativi.

[GdA]    Collezionare è una vocazione con dei precedenti nella sua famiglia?

[GPB]   Nessuno, ma mia madre e mia zia erano pittrici dilettanti. Ho in casa dipinti della mamma che rivelano sensibilità.

[GdA]   I suoi primi amori in arte.

[GPB]   Quand’ero giovane ero più interessato alla pittura di origine espressionista. Espressionismo e manierismo sono due filoni fondamentali nella pittura e nell’arte di tutti i tempi. Mi piacevano Michelangelo, Tizia-no, Tintoretto, Lorenzo Lotto. Raffaello e Andrea Del Sarto mi interessavano meno: sbagliavo perché erano altrettanto importanti.

[GdA]   Il suo primo acquisto?

[GPB]  Un quadro di Soldati che mi ha venduto Guido Le Noci nel gennaio del 1956. Avevo 32 anni, mi ero appena sposato.

[GdA]  Perché nessun italiano in collezione?

[GPB]  Ho cominciato nel 1956 quando i collezionisti italiani avevano solo artisti italiani e nei musei italiani non c’era nessun quadro moderno di artisti stranieri. Per questa ragione non ho collezionato gli artisti italiani, ma questo non vuol dire che non me ne sia interessato, che non li abbia stimati. Tutto quello che è successo a Torino nel periodo dell’arte povera ritengo che sia stato un fenomeno di importanza internazionale e che gli artisti di Torino di quel periodo siano artisti fondamentali nella storia della cultura non solo italiana.

[GdA]  Nessuna tentazione di occuparsene?

[GPB]  Sì, ma ho sempre cercato di specializzare la mia attività. Ho cercato di comperare dei bei mobili del ‘500 per la mia casa, mi sono interessato di arte primitiva perché la trovavo affine all’arte moderna, ma in modo marginale. Dovevo scegliere degli obiettivi. Detesto le collezioni fatte con un po’ di tutto. Manifestano un interesse vasto, ma si può far bene una cosa sola nella vita.

[GdA]  Vi sono collezioni che l’hanno impressionata?

[GPB]  La collezione Ströher, una famosa collezione pop, centinaia di pezzi degli anni ’50 di una qualità assoluta. Purtroppo, Stróher è morto alcuni anni fa e la collezione è stata divisa tra il museo di Francoforte e dei collezionisti di Berlino. Ma era la collezione più bella d’Europa. La collezione Ludwig ha dei pezzi molto importanti ma è fatta con criteri completamente diversi dai miei. È una collezione enciclopedica, vuole dare un’informazione su tutti gli avvenimenti d’arte senza dare un giudizio critico, che è quello che a me preme, non la documentazione. Le lacune della mia collezione sono volute in un certo senso perché non ho capito certe cose o perché non ho avuto i mezzi economici.

[GdA]  Lei si è avvalso di qualche consigliere?

[GPB]    Ho avuto la fortuna di conoscere gente che mi ha dato delle indicazioni preziosissime, ma alla fine ho giudicato sempre in base al mio criterio. I pareri diventano univoci solo quando l’artista è già famoso e non c’è più bisogno di ricorrere all’opinione dell’esperto per avere un giudizio.

[GdA]   Ha mai riciclato parte della collezione? Sono quasi assenti nel mercato le provenienze Panza di Biumo.

[GPB]   Molto poco, solo all’inizio ho fatto degli sbagli acquistando degli artisti francesi giovani che, mi sono accorto a meno di un anno di distanza, avevano un valore limitato. Mi è capitato, qualche volta, di fare degli scambi per perfezionare la collezione ma solo negli anni 1960-62. Ho scambiato alcuni Tàpies, Fautrier, Lichtenstein e Twombly facendo degli errori colossali. Ho scambiato 7 meravigliosi Twombly, comperati a Roma nel 1958 per 100 mila lire l’uno, dei quadri grandi, stupendi, i più belli di Twombly, con delle opere di Rosenquist. Stimo molto Rosenquist ma avrei fatto meglio a tenermi i 7 Twombly e a comperare con altri soldi i Rosenquist. Ma in quel momento Twombly aveva degli aspetti erotici che mi davano fastidio.

[GdA]    Come ha stabilito il contatto con la Regione Piemonte?

[GPB]    Mi interessava molto l’architettura barocca. Nel 1978 ero a Courmayeur in agosto e sono andato a vedere Rivoli e Venaria, questi meravigliosi edifici vuoti, in abbandono. Siccome ero già da tempo alla ricerca di spazi per la collezione, ho scritto al dottor Gianluigi Gabetti dicendogli di questo mio desiderio e pregandolo di indicarmi il modo di avere dei contatti con dei responsabili del Comune di Torino o della Regione. Suo fratello, l’architetto Gabetti, mi ha messo in contatto con l’assessore Rivalta e tutto è cominciato da questi rapporti. Il restauro del castello di Rivoli è quasi ultimato e verrà adibito a sede di una parte della sua collezione. Della scultura minimal, per la quale esiste un contratto di comodato di 15 anni. È veramente impossibile trovare un edificio così bello, combinare un matrimonio con felice tra l’arte recente e l’architettura del passato.

[GdA]    Sul versante pubblico chi ha capito la qualità di questo progetto?

[GPB]    La giunta della Regione è stata molto aperta, il sindaco Novelli è poi venuto a Varese. Penso che il motore sia stato Rivalta, ma anche il presidente Viglione si era molto entusiasmato. E anche l’assessore Ferrero. Non c’è mai stata neanche nei partiti di opposizione alcuna critica. Questo è miracoloso. Purtroppo, ho avuto esperienze con altre regioni italiane, sempre con esito negativo, il più negativo, purtroppo, con la Regione Lombardia dove risiedo. Inutilmente ho proposto da tanto tempo di rendere pubblica la mia casa di Varese.

[GdA]    Quindici anni sono molti ma sono anche pochi. Che cosa succederà alla fine del comodato?

[GPB]    Il mio obiettivo è rendere totalmente pubblica la mia collezione. Come privato ho disponibile per la donazione il 25% del mio patrimonio. Ho 5 figli, quindi questa aliquota non può essere superata, perché i miei eredi potrebbero chiedere la restituzione in qualsiasi momento di quello che è stato donato in più in lesione della quota di legittima dei figli. È quindi indispensabile che la collezione diventi di proprietà pubblica prima che io muoia. La mia preoccupazione è quella di esporre al pubblico la mia collezione nel miglior modo possibile. Questi due progetti di Rivoli e di Vena-ria Reale sono estremamente importanti perché si può esporre quasi tutta la collezione salvo le cose che rimarranno a Varese e in secondo tempo di rendere pubblica la proprietà donando io il 25% e facendo diventare pubblico il restante applicando la nuova legge 512 che permette cose che una volta sarebbero state impossibili.

[GdA]    Quale è l’atteggiamento della sua famiglia?

[GPB]    Mia moglie è favorevole ma anche molto perplessa sulle donazioni che faccio. Preferirebbe che i figli potessero avere il massimo possibile. Dovendo dividere il patrimonio in 5 fette i miei figli non possono certo vivere di rendita. L’ultimo ha 17 anni, il maggiore 27: tutti più o meno condividono il mio interesse per l’arte.

[GdA]    Quando è nato il progetto di Palazzo Reale di Venaria?

[GPB]    Un anno fa, quando l’esercito ha lasciato le ultime scuderie ed è sorta la necessità di dare una destinazione a questo edificio così grande. Con tutta la restante parte della mia collezione si può utilizzare lo spazio completo. È una delle residenze barocche più belle e più grandi in Europa.

[GdA]    A che punto è con Venaria?

[GPB]    La Soprintendenza ha iniziato il restauro, si attendono i finanziamenti promessi in base alla legge sull’occupazione per la parte assegnata ai restauri degli edifici monumentali. Se questi soldi arrivano si può fare un restauro che salvi l’edificio. Se questi finanziamenti si potranno ripetere nei prossimi 5-6 anni si potrebbe completare il restauro. Non è stato definito quanto spazio viene assegnato alla collezione, o se ci saranno altre attività. Si era parlato di un cen tro di congressi, o di dedicare alcune stanze alla storia dell’edificio. Per ora esiste un’indicazione di massima del Ministero dei Beni Culturali di destinarlo a sede della mia collezione ed esiste un interesse della Regione Piemonte che deve essere confermato dalla Regione e dal Comune di Torino.

[GdA]  Parliamo ora del terzo punto: l’acquisto da parte della Regione Piemonte delle 80 opere attualmente a Zurigo che vorrebbe comprare anche il MOCA di Los Angeles.

[GPB]    Il mio avvocato mi aveva detto che ero in una situazione illegittima. Ne ho parlato all’assessore Rivalta che ha mostrato subito molto interesse. Nello stesso tempo, siccome sono consigliere del Museo d’Arte Contemporanea di Los Angeles ne avevo parlato al direttore Richard Koshalek che mi ha fatto firmare il 26 luglio un impegno di vendita da confermare non oltre il 30 settembre 1983 che mi salvava dal rischio di una dispersione della collezione. Ho cercato di lasciare più tempo possibile alla Regione Piemonte per decidere. Io desideravo arrivare fino alla fine di dicembre ma al MOCA devono avere almeno tre mesi per raccogliere i soldi. La Regione Piemonte deve quindi decidere entro fine settembre. Questo avveniva alla fine di giugno. A metà settembre il presidente della Regione Viglione mi ha ancora confermato l’interesse a concludere.

[GdA]    Qual è l’ostacolo maggiore a una decisione positiva da parte della Regione Piemonte?

[GPB]    Gli ostacoli di ordine finanziario ci sono sempre, ma a Torino l’occupazione nell’industria sta calando in modo preoccupante e la Regione e il Comune sanno che l’unico fattore che può almeno in parte compensare questa perdita di occupazione è lo sviluppo del terziario, specialmente il terziario avanzato. Ora, che si può sviluppare c’è solo il turismo e bisogna creare occasioni di importanza internazionale che richiamino a Torino un turismo internazionale. Con un investimento diciamo di 15 miliardi si possono far venire a Torino perlomeno 100 mila turisti stranieri all’anno. Questi spendono non meno di 100 mila lire a persona: sono 10 miliardi sull’area urbana di Torino distribuiti a pioggia in tutte le attività economiche, turistiche, alberghiere, commerciali, e così via che danno così lavoro per sempre a 7-8 mila persone mentre l’autostrada del Frejus che costa 900 miliardi, dà lavoro a 9 mila per soli 7 anni. È quindi un investimento modestissimo il cui ammortamento è estremamente rapido, un anno e mezzo. Quale altro investimento pubblico si ammortizza in un anno e mezzo?

[GdA]    Centomila sono tanti: esistono dati di paragone nel mondo?

[GPB]   Il Museo d’Arte Moderna di New York ha un’affluenza di 2 milioni di persone, la Tate Gallery di Londra (che tra l’altro, in tutti questi artisti, tranne Rothko, è estremamente deficitaria) di 3 milioni. Il MOMA di New York, ha sì 7 Rothko ma non ha 11 Rauschenberg di questo periodo, non ha 12 Kline, ne ha solo 2 o 3. Naturalmente il MOMA ha i Cézanne, i 30 Pi-casso, ecc. Anche il Guggenheim di New York e il Whitney hanno solo alcuni esempi di questi artisti, due o tre ciascuno e affluenze di milioni di persone. Ma andiamo a vedere città tedesche, svizzere o olandesi, che sono un paragone più calzante: lo Stedelijk di Amsterdam ha 500 mila visitatori all’anno, il Louisiana credo 200 o 300 mila visitatori, il museo di Colonia ne ha 450 mila, Mönchengladbach che è stato appena inaugurato credo abbia più di 100 mila visitatori all’anno, Basilea credo 300 mila. Questa cifra di 100 mila stranieri è centrata, a mio parere. Torino è a due ore di macchina da Ginevra, a 3 da qualsiasi punto della Svizzera e in un bacino culturale di 9 milioni di persone in Lombardia e di 4 milioni in Piemonte. Il dirottamento di una parte del fortissimo traffico estero di Milano non è impensabile se c’è una cosa che interessa a Torino. Da Torino passano i francesi che vengono in Italia.

[GdA]  Lei non pensa che possa essere impopolare in una città operaia l’acquisto di una collezione d’arte d’avanguardia?

 

[GPB]    Non credo. Il Piemonte non è più un’area culturalmente arretrata. Nella classe operaia la coscienza culturale si è sviluppata in questi ultimi 20 anni ed è enormemente cambiata rispetto a 50 anni fa. C’è una contraddizione a quello che lei sta dicendo, ed è l’accoglienza fredda della mostra di Calder. Purtroppo la mostra di Calder è conosciuta in pratica solo a Torino essendo temporanea, e non è stata preparata con sufficiente pubblicità. È un altro conto se una cosa è permanente e usufruisce di una globalità di informazione.

[GdA]    Se tutto ciò si realizza che cosa rimane della sua collezione?

[GPB]    Se Venaria viene realizzato ci stanno 300 opere, a Rivoli sono previste, quando sarà restaurata anche la manica bassa, 70 opere, a Varese, se diventasse tutto l’edificio un museo, ce ne starebbero altre 120. In queste 3 località ci stanno quasi tutte le 600 opere che formano la mia collezione e che hanno la qualità per essere esposte al pubblico.

[GdA]  Che cosa farà del denaro?

[GPB]  Comprerò dei buoni del tesoro e cercherò di sistemare diversamente il mio lavoro che non mi dà soddisfazioni economiche, mentre il lavoro che faccio nel campo dell’arte è molto più importante. Spero di riprendere a collezionare e di dedicarmi interamente a questa attività promozionale dei musei che penso sia il vero compito che il destino mi ha affidato.

[GdA]  Qual è la sua attività?

[GPB]  Insieme a mio fratello ho un’attività in campo immobiliare e un’azienda che produce alcol industriale.

[GdA]  Qual è la sua opinione sugli attuali orientamenti internazionali dell’arte contemporanea?

[GPB]  Dopo il 1968 c’è stato un cambiamento di tendenza naturale, anzi necessario. La mia esperienza di collezionista si può dividere in periodi. All’inizio c’è stata l’arte informale, interessante tra il 1956 e il 1958. Nello stesso periodo l’espressionismo astratto americano, interessante fino al 1959. Dopo il 1955 è cominciato il new dada di Rauschenberg e Jasper Johns, importantissimo fino al 1960-64. Nel 1960 è nata la pop art, la cui attività più creativa è stata dal 1960 al 1963. Nel 1964 è nata l’arte minimal, nel 1968 l’arte concettuale, nel 1970 si è sviluppata a Los Angeles un’arte ambientale. Tutte queste esperienze hanno caratteristiche e periodi di sviluppo ben definiti. L’arte informale alla fine degli anni ’60 aveva esaurito il suo compito, l’espressionismo astratto pure. La pop art dopo il 1964 è stata meno interessante. Ogni periodo ha il suo momento di fioritura e poi man mano che si diffonde perde efficacia. In un primo tempo c’è l’interesse dei collezionisti per il nuovo, la possibilità di acquistare dei pittori interessanti a prezzi abbordabili. A mano a mano la qualità di quei pochi artisti importanti diventa evidente e si crea una differenziazione di prezzo molto forte. Questa selezione nel mercato genera anche una crisi, dato che dopo un numero di anni gli artisti più creativi si logorano, in un certo senso, e si logora anche il mercato. La volta che Schnabel o Kiefer o Chia valgono 50-60-70 mila dollari, evidentemente il mercato non è più accessibile ad un collezionista medio, il quale peraltro si accorge che gli imitatori di Kiefer o di Chia sono mediocri. C’è quindi una caduta di interesse. Quando un movimento si sviluppa ci sono 5 artisti importanti e 10-20-30 mila mediocri.

[GdA]  Le interessano gli artisti che ha appena citato?

[GPB]    Sì, con qualche riserva. Gli artisti del periodo precedente hanno rischiato di più perché hanno esplorato situazioni nuove, condizioni non conosciute della nostra sensibilità. Oggi questi artisti fanno un lavoro di recupero di esperienze passate che hanno la capacità di fondere insieme, un lavoro di sintesi, indubbiamente interessante e intelligente, ma è un ripiegamento su se stessi, sul proprio passato. Naturalmente stimo molto artisti come Schnabel che ho conosciuto tanti anni fa quando era agli inizi del suo lavoro. Hanno la caratteristica di essere diseguali nella qualità. Di Schnabel come di Chia ci sono quadri molto belli, ma anche tanti molto brutti. Mi ricordo che alla prima mostra nel 1979 di Schnabel, Mary Boone pensava di vendere i quadri a 2 mila dollari. Adesso si dice che costano 70 mila dollari. Il loro successo è stato molto più repentino dei precedenti.
Essendo una pittura di recupero del passato, è di più facile assimilazione: quando uno ricorda, capisce. Se invece deve capire una cosa che non ha mai visto, fa fatica.

[GdA]  Ha un’idea di che cosa potrà avvenire dopo?

[GPB]  Tutte le volte che ho fatto delle previsioni, ho sbagliato. L’unica cosa intelligente è non fare previsioni ma cercare di capire quello che sta succedendo.

[GdA]    Lei ne ha trovati?

[GPB]   Sì, ci sono degli artisti giovani che non hanno avuto successo finora ma che penso dovranno averlo. È però difficile attribuir loro un ruolo di capo corrente. A Los Angeles ho conosciuto artisti che mi sembrano interessanti. Bob Therrien mi interessa molto, è un artista che fa delle sculture che sono come delle pitture, in genere su supporto di legno con pittura ad encausto, a base di cera, con i toni caldi e fondi della pittura a encausto. Finora non ha avuto successo perché è un genere di pittura che, non dico sia lugubre, non lo è affatto, ma ha qualche cosa che sembra un po’ la contemplazione della morte e quindi dà una sensazione strana. Un altro artista che già due anni fa mi aveva interessato molto è Garabedian, pure di Los Angeles che fa una specie di transavanguardia, è molto colto, ma può sembrare del genere kitsch losangelino, mentre guardandola attentamente ci si accorge che è estremamente raffinata. Era esposto, tra l’altro, a Venezia alla Biennale del 1982. C’è Shelton, anche di Los Angeles, Paul Picot che fa una specie di espressionismo ma molto personale, e Kaiser Vogel, tutti di Los Angeles. Purtroppo, in questi anni essendo molto impegnato nella sistemazione della collezione non ho avuto tempo di informarmi come in passato. Dal 1975 non faccio acquisti. Spero che le cose cambino.

 

L’intera Collezione Panza è un affare di coppia. Quando Giovanna e io scopriamo le opere di un nuovo artista, guardo mia moglie e lei guarda me. Capisco dai suoi occhi se vuole comprare o no. Tra me e lei, è una questione di sguardi…”

Giuseppe e Giovanna Panza presso la Leo Castelli Gallery di New York, 1975 – photo Filippo Formenti, Milano

Giuseppe Panza davanti a un’opera di David Simpson