Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Quanto è vecchia la nuova Spagna? Risponde in questa intervista esclusiva uno dei maggiori osservatori culturali spagnoli, critico e storico dell’architettura e membro del Comitato artistico del Centro Reina Sofìa. Dal “Giornale dell’Arte” n.70, agosto 1989
Come è strutturato il Museo?
Il Museo è una fondazione autonoma, che ha come organo direttivo massimo un patronato formato da 15 persone, noi abbiamo la responsabilità delle decisioni per le collezioni, della politica delle esposizioni
e dell’organizzazione interna. Esiste inoltre una commissione esecutiva composta da 6-7 persone e da un direttore per il funzionamento del museo. L’impegno del Museo è quello di essere un centro di esposizioni, cioè uno spazio per esporre proprie produzioni per le quali disporre di una struttura permanente. Vorrei spiegare inoltre che questo Centro d’Arte, che non definirei esattamente museo, porrà attenzione soprattutto alle arti plastiche; non saranno invece fondamentali né gli oggetti o materialiche hanno un valore puramente storico, né i temi più legati alla vita quotidiana, come il disegno industriale, la grafica, la fotografia e la stessa architettura. Queste cose non saranno presenti nel Museo. In Spagna c’è un grande «interventismo» dell’amministrazione pubblica per la creazione di musei e per la costruzione o ristrutturazione di edifici.
Qual è la situazione del patrimonio architettonico a destinazione culturale?
Credo che i nostri politici e i cittadini desiderino recuperare il tempo perduto; ciò succede in Spagna e non mi pare che la stessa cosa si verifichi nella stessa misura in altri paesi europei. In Spagna è in programma la costruzione di più di venti musei, le costruzioni e i recuperi di circa 40-50 teatri. Sono inoltre in costruzione una dozzina di Auditorium a Santander, Valencia, Madrid, Siviglia e in altre località che adesso non ricordo. Esiste un maggior controllo sia sul patrimonio architettonico nei piani urbanistici, sia sull’importazione ed esportazione dei beni culturali. Invece la protezione fiscale delle opere d’arte in Spagna deve ancora cominciare.
Quali sono i più importanti interventi nel patrimonio architettonico? E con quali criteri?
Da alcuni anni esiste una politica che si potrebbe discutere se sia specialmente storicista o no, ma diciamo che in questo c’è più o meno un meccanismo di protezione stabilito e vengono applicati alcuni criteri abituali di restauro più o meno accademici. Per esempio, è forte la sensibilità riguardo allo sviluppo urbano intorno all’Alhambra per la protezione sia del monumento stesso che dell’area di boschi e di verde che lo circondano. A tal fine si è bandito un concorso nei mesi di giugno-luglio per la protezione delle aree limitrofe al colle dove sorge l’Alhambra di Granada.
Un altro grande progetto riguarda la Mezquita di Cordoba: è un edificio molto problematico perché ha subito numerosi interventi e quindi richiederà nei prossimi anni sforzi notevoli. Non ci sono municipi, enti o istituzioni varie che non abbiano pensato a recuperare un palazzo, restaurare un edificio o una cattedrale. Noi spagnoli abbiamo l’impressione, non so se vera o falsa, che il nostro patrimonio storico lo abbiamo valorizzato poco e dilapidato abbastanza, che ci siamo fatti portar via molte opere, persino edifici interi, come interi chiostri romanici che pochi anni fa sono stati traslocati negli Stati Uniti.
Oggi il grado di controllo è assai superiore e i rischi di danni sono di conseguenza diminuiti. La competenza di questi controlli è passata ai governi regionali i quali si sono dimostrati più vicini ai problemi possedendo una sensibilità immediata per i propri monumenti e opere d’arte. In Spagna oggi è considerata importante anche la produzione media, in molti casi anonima, di artisti di secondo o terzo livello che hanno realizzato opere, tra cui palazzi, chiese, pale d’altare, che non sono grandi opere d’arte ma che ugualmente non devono venire distrutte. Voi italiani sapete bene che l’Italia non è solo la patria di Michelangelo e Tintoretto, ma anche di artisti minori che è fonda mentale conservare e proteggere ugualmente.
Per ciò che concerne l’architettura, che è l’argomento che più conosco, c’è una tendenza che ritengo positiva: l’intervento non viene inteso esclusivamente come una operazione filologica, ma come una operazione che evidentemente prolunga la vita degli edifici o dei complessi architettonici, senza il timore che in essi permangano tracce della contemporaneità.
Vuole fare qualche esempio?
Sono stati eseguiti molti restauri e i più interessanti riguardano opere di importanza non primaria, compiuti pensando al riutilizzo, come i mulini di Murcia, o alcuni edifici industriali nei dintorni di Barcellona. Questi esempi mi sembrano molto rappresentativi di questa tendenza ad accogliere con un certo rispetto l’architettura storica.
E il restauro di opere d’arte?
Abbiamo una grande tradizione accademica di restauro. I problemi del restauro delle arti plastiche sono complessi e polemici, come quelli dell’architettura. Mentre in Italia la polemica sul restauro esiste ormai da molti anni, in Spagna esiste poco. Abbiamo una tradizione che definirei positivista, anche se un po’ limitata. I grandi musei, come il Prado e il Museo d’Arte della Catalogna, hanno scuole di restauro. In questo campo però manca un dibattito un po’ più ampio, in quanto l’intervento sulle tele o sugli intagli se da una parte è necessario, dall’altra rappresenta un gesto culturale che non è mai permanente, né esente da un giudizio di gusto.
Dove e come avviene la formazione dei restauratori?
La prima formazione avviene con la specializzazione in Storia dell’Arte presso la Facoltà di Storia dell’Università; in seguito, c’è la possibilità di un apprendistato che ha luogo in centri di restauro attraverso corsi di preparazione più pratica. In Spagna però non esiste una grande scuola di restauro.
Come è strutturato l’insegnamento di Storia dell’Arte?
La Storia dell’Arte si insegna quasi esclusivamente nelle Facoltà di Storia; la specializzazione è legata a un dipartimento di Storia dell’Arte, che a sua volta è divisa nei rami convenzionali di Storia di arte antica, medioevale e moderna. Questi sono i tipi di studio più comuni. La formazione in Storia dell’Arte può avvenire anche presso la Facoltà di Arti Minori, nelle Scuole di Architettura. La storiografia spagnola è stata segnata dalla tradizione positivista, con una parte filologica molto importante. Al contrario il dibattito sulla storia dell’arte come interpretazione è sempre stato visto con riserva e sospetto degli storici. Adesso si avverte un cambiamento che considero positivo.
Nelle scuole di architettura spagnole l’acquisizione della conoscenza tecnica della pratica progettuale è alla base della formazione, a differenza di altri paesi europei. Questo vi ha dato un particolare prestigio. Nel mondo occidentale, a partire dalla Rivoluzione francese sono stati due i modelli di formazione degli architetti: quella ottenuta attraverso una specializzazione presso le scuole d’arte e quella che chiamerei politecnica per la quale l’architetto è visto come tecnico specializzato in un certo campo. In Spagna abbiamo una situazione relativamente equilibrata mentre in altri Paesi l’architetto è un «artista», un uomo che compie gesti più legati ai temi del significato, del gusto, ma al contrario non gli si chiede competenza e soprattutto responsabilità per quanto riguarda la funzionalità, la costruzione e i costi dell’edificio.
In Spagna invece l’architetto detiene nel modo più assoluto questa responsabilità ed egli necessita (è la professione stessa che lo esige) di ampie conoscenze tecniche, perché davanti alla legge solo lui è il responsabile totale di ogni costruzione. Tutto ciò porta l’architetto spagnolo ad una maggiore attenzione a ogni tipo di problemi, che deve risolvere con criteri pratici, efficaci, di buon comportamento tecnico, incorporandovi la sua concezione più globale, formale o artistica che il disegno di un edificio richiede.
Egli è probabilmente meno versato nel disegno, meno speculativo dal punto di vista teorico, perché possiede questo carico di realismo, che dà al personaggio un profilo un po’ diverso. Il disegno dell’architetto spagnolo è carico di realismo perché deve servire a spiegare la costruzione, i materiali, ogni minimo dettaglio e per questo egli non lo intende tanto come fantasia o come immagine. Mi sono trovato a preparare esposizioni sui temi di architettura spagnola o su un architetto in particolare, e nel suo studio fra le centinaia di disegni quelli che predominano sono i disegni tecnici ed esecutivi. Io credo che un progetto sia il risultato di due cose: una prima felice idea, da una parte (e la prima visione è sempre molto importante) e poi quella che Le Corbusier chiamava la Recherche patiente, cioè il lavoro lungo, il rifare le cose cinque volte.
Quello che sembra essere il risultato più semplice, più felice e più immediato ha sempre dietro di sé ore e ore di prove. Avevo un professore di filosofia che diceva che i migliori ballerini sono coloro che riescono a fare le piroette più difficili dando la sensazione di eseguirle con la massima facilità. Un progetto ben riuscito è un po’ come l’arte dei ballerini. È un gesto etereo, evidente, chiaro, ma non perché è opera di un genio, ma perché dietro di esso c’è un lavoro molto duro.
Qual è la situazione dell’editoria specializzata in Spagna?
Sembra esservi una grande proliferazione di riviste e di libri sui temi specifici dell’arte e dell’architettura. Vi considerate bene informati? Il mondo editoriale nel campo dell’arte e dell’architettura ha una buona vitalità in Spagna. Ma mentre l’informazione è molta, il dibattito è scarso. Dei libri che si pubblicano, neppure un 10% è oggetto di un commento minimo che non sia puramente di rassegna. Da parte dell’editoria c’è uno sforzo per tradurre tutto ciò che si pubblica in altri Paesi mentre mi sembra invece che manchi nella stampa e nelle riviste più specializzate il dibattito su quanto filtra da queste informazioni. Se non siamo capaci di fornire criteri, di stabilire una polemica fra i vari punti di vista su questa enorme quantità di informazione, il rischio è che questa diventi disinformazione.
In generale il mondo dell’arte è poco abituato a ricevere opinioni. Il ruolo dei critici in Spagna è drammatico: chiunque metta in dubbio qualcosa, immediatamente è considerato come una persona indesiderata che deve essere distrutta. Non esiste l’abitudine ad esprimere in pubblico certe opinioni né di accogliere quelle che possono essere in contrasto con altre. La massima delusione in questo Paese è fare un’opera o scrivere un libro perché, in generale, dietro a questo lavoro c’è il silenzio, un silenzio che si capisce che non è neutro, ma è misterioso: non si sa se è di approvazione o di disapprovazione.
Quali sono i rischi e i limiti dell’attuale vitalità spagnola?
Voglio rispondere con una frase molto spagnola: il primo rischio è quello di rinchiudersi in sé stessi; così facendo qualcuno si sente gratificato, ed è un gran difetto. Questo è un pericolo tremendo dal quale se la cultura artistica spagnola non riesce a sottrarsi, corre immediati pericoli. Il secondo rischio è non avanzare nel confronto diretto. Io credo che l’attuale successo della cultura spagnola si produca perché non esiste ancora un confronto in termini di uguaglianza. Ai pittori spagnoli manca il passaggio attraverso la prova di stare a fianco dei pittori tedeschi, italiani o francesi, ed anche all’architettura spagnola manca questo confronto in parallelo, così come manca alla letteratura, al teatro, alla musica.
L’ammirazione e l’interesse suscitati dalla cultura spagnola hanno ancora dei segni di limitatezza. Io credo che la sfida dei prossimi anni sarà non solo di rimanere aperti a ricevere dall’esterno esposizioni, pittori, musicisti, letterati e architetti, ma provare fino a che punto essi saranno capaci di avere interessi verso di noi perché i nostri artisti, messi a confronto con un pittore tedesco o francese, con un architetto inglese 0 nord-americano, risulteranno più interessanti. Il giorno in cui da Parigi o da New York chiameranno un pittore o un architetto spagnolo per lavorare in quelle città, solo allora si verificherà una situazione di normalità. Questo sta già avvenendo, solo che, mentre stiamo ricevendo dagli altri Paesi una considerazione speciale, non vediamo ancora raggiunta la piena normalità culturale alla quale aspiriamo.
Ma la Spagna non ha ormai questa presenza internazionale?
Se a Torino o a Düsseldorf si allestisce una esposizione di arte contemporanea spagnola, questa ha probabilmente successo così come lo avrebbe una esposizione di architettura spagnola contemporanea. Ma io vorrei, e ciò per fortuna comincia a succedere, che, quando un Centre Pompidou organizza un’esposizione su qualunque tendenza di cultura contemporanea, lì fossero presenti gli spagnoli al pari di tutti gli altri, che la loro assenza fosse considerata come una omissione. Questo è il tipo di confronto che noi dobbiamo avere sempre presente. A prescindere dall’interesse che già otteniamo, è anche importante essere effettivamente competitivi. Quali difficoltà particolari incontra la diffusione della cultura spagnola all’estero? Una di esse è l’idioma spagnolo, che è ancora poco conosciuto in Europa.
Il castigliano è una lingua periferica, come il danese o il greco, ad esempio, le quali sono lingue rispettate, ma non costituiscono veicoli di comunicazione, di cultura, in Europa. È difficile trovare un inglese, francese, o italiano che legga o che parli in spagnolo e questo è un grande limite. Cominciano appena adesso ad apparire nelle librerie svizzere, tedesche o inglesi alcune pubblicazioni in spagnolo, ma sono ancora poche. La conquista della cultura spagnola nei prossimi anni sarà quella di finire di essere un caso esotico, peculiare, per diventare la cultura di un paese sviluppato e occidentale.
Il fatto che la Spagna sia di moda quali rischi comporta?
È comodo essere di moda: oggi la Spagna lo è come è di moda l’Ungheria, perché è un paese dove succederanno molte cose come la Russia, la Grecia o la Turchia. Io però a ciò non do molta importanza: ciò che mi interessa è che questa moda serva per un confronto.
Come vede la presenza massiccia di architetti e artisti stranieri chiamati in Spagna?
Questo processo di normalizzazione implica il fatto che, se uno desidera un buon architetto o un buon pittore non ha motivo di fermarsi all’offerta più immediata. Se io desidero un buon museo, perché devo pensare solo agli architetti di Barcellona e non a quelli di Madrid, Siviglia, Milano, Parigi o New York? Questo è il salto che bisogna fare; Arco, la fiera d’arte più importante in Spagna, sarà veramente importante quando cesserà di essere soprattutto spagnola per diventare internazionale, con uno scambio, in questo caso a livello mercantile, di produzioni artistiche di ogni parte del mondo.
Un cosmopolitismo troppo spinto non può far perdere agli spagnoli la propria identità?
Penso di no. In Spagna non stiamo correndo questo pericolo, dubito che ad esempio Barcellona e Düsseldorf diventino uguali.
Ma in Spagna non predomina una sintesi di modelli importanti dall’estero con scarsa incidenza di modelli spagnoli?
Oggi il riconoscimento della cultura spagnola si produce anche perché per il resto d’Europa essa comincia ad essere sufficientemente uguale per essere compresa, e non come fatto puramente folkloristico. Se vado in Cina, mi stupisco ma non capisco niente; se invece vado a Trieste, Lisbona o Marsiglia, penso di capire più cose, anche se fra Trieste e Lisbona esiste una enorme distanza non solo fisica, ma ambientale e culturale. Anche la comunicazione si produce su una base di ridondanza, come dicono i semiologi, su un certo processo di similitudine.
Se un signore parla una lingua che non ha relazioni con la mia, è impossibile che io lo capisca. A parte la preoccupazione di sapere se siamo uguali o diversi, credo che alla fine la cultura debba essere l’espressione stimolante da un punto di vista intellettuale od emozionale dei problemi che vive la gente, che sono peculiari in questo momento. È compito della cultura spiegare le convinzioni, la confusione, l’isolamento, la collettivizzazione del mondo contemporaneo.
Ciò che vale nella cultura è la capacità ad esprimere e manifestare le esperienze umane più o meno intense e profonde. In tutto il mondo si sta facendo una discussione più di mercato, non nel senso peggiore della parola, ma nel significato della concorrenza che ha luogo.
Questi signori partecipano o no, ci sono o non ci sono, offrono o non offrono, interessano o non interessano. Tutto ciò va molto bene. L’edificio che abbiamo davanti, il romanzo che sto leggendo, le fotografie che ho sottomano, mi aiutano a capire maggiormente, mi emozionano, muovono le mie fibre interiori, che invece altre cose non muovono. Questa alla fine è la vera misura dell’arte e della cultura.
Da molti anni lei è un frequentatore dell’Italia, scrive nelle maggiori riviste di architettura, tiene conferenze all’Università ed è uno dei personaggi della cultura spagnola sicuramente più conosciuti in Italia. Ma che cosa può dire dei vostri rapporti con l’Italia?
A parte il mio caso particolare, si è sempre detto che nel campo dell’architettura il rapporto fra Barcellona e soprattutto il nord-Italia da 30-40 anni a questa parte è stato molto intenso. Io credo di partecipare un po’ a queste relazioni così intense. Ho molti amici: a Milano, Torino, Roma, Bologna, Venezia e Firenze; non ci unisce solo un’amicizia personale, ma intellettuale nel senso che sono persone con cui divido progetti, punti di vista e desideri, tanto da farmi sentire in Italia quasi come a casa mia.
Nel campo dell’architettura, che è quello che conosco meglio, l’Italia è stata leader della cultura non dico nel mondo, ma per lo meno in Europa durante gli anni ’60 fino alla metà degli anni ’70. Ciò ha fatto sì che in questi anni la storiografia, le riviste, i modelli dell’architettura italiana e i vostri nomi più prestigiosi abbiano influito enormemente non solo in Spagna, ma in Francia, Belgio e Usa in un modo coinvolgente, ma mi pare che ci sia ora un esaurimento dell’intellettualismo con cui l’architettura italiana ha affrontato certi problemi negli ultimi 15 anni.
Al contrario ci sono altre tradizioni, direi periferiche, nella stessa Italia che sono state volutamente emarginate. La discussione centro-periferia si fa anche in Italia: probabilmente è più facile incontrare nei piccoli e medi centri opere, architetti e punti di interesse che non nelle grandi città. Mi pare che in questo momento a Pisa o Napoli si possano incontrare opere più innovatrici e stimolanti che non magari a Roma o Milano.
Nella formazione della cultura spagnola l’Italia è stata dunque rilevante?
Per me stesso, è stata molto importante. Dalla metà degli anni ’60 alla metà degli anni ’70 ebbi un lavoro nel mondo editoriale decisivo: diressi infatti una collezione di un certo rilievo in Spagna e ricordo che allora umoristicamente si diceva che non bisognava pubblicare tanti autori italiani, perché sembrava che il discorso sull’architettura fosse solo italiano. Voglio dire che allora l’interesse che la cultura italiana suscitava in noi fu fondamentale per la nostra formazione.