Capsule Digitale

María de Corral e Rosa Martínez

Il 12 giugno 2005 inaugura la prima edizione* «al femminile» della Biennale di Venezia  Le due direttrici ne anticipano i contenutidella storica rassegna

Social Share

María de Corral e Rosa Martínez

Dal "Giornale dell'Arte" n. 240, febbraio 2005

[GdA] Qual è il vostro programma per la Biennale di Venezia?

[Maria de Corral] Vorrei fare la migliore mostra possibile compatibilmente con il tempo e lo spazio che ho a disposizione per lavorare. Non ho intenzione di allestire un’esposizione tematica, né di creare un percorso, poiché il Padiglione Italia ha una struttura labirintica. La situazione artistica attuale è di una complessità e ricchezza tali che io non desidero affatto ridurre il programma a mera presentazione di alcune delle espressioni esistenti, che confluiscono peraltro le une nelle altre e arricchiscono il panorama artistico. L’esposizione sarà più una cosmologia che un percorso attraverso un’idea. Mi sembra che le esposizioni tematiche siano spesso troppo riduttive. I temi sono più appropriati per scrivere libri che per allestire un’esposizione. In generale, nelle esposizioni tematiche, gli artisti sono lì per intrecciare esperienze di altri. Se il tema viene seguito alla lettera, le opere non sono buone: gli artisti ne vengono molto condizionati.

[Rosa Martinez]  «Sempre un po’ più lontano» è il titolo che ho dato alla mostra all’Arsenale. È tratto da un libro di racconti di Corto Maltese, il personaggio creato dal disegnatore di fumetti veneziano Hugo Pratt. Il titolo è sufficientemente aperto e stimolante per non limitare la proposta artistica. La Biennale è più aperta di un museo, vi confluiscono posizioni differenti, si articolano espressioni artistiche e politiche provenienti da luoghi diversi del mondo. Questa è la sua ricchezza, e in questa sua apertura sta anche il suo limite. Per questo il titolo di Corto Maltese è così conveniente. Inoltre, esso permette di stabilire relazioni tra realtà e finzione e difende la tesi secondo la quale l’arte è un combattimento nel territorio simbolico e dell’immaginazione. Corto Maltese inoltre personifica l’idea del viaggiatore romantico, indipendente, aperto all’azzardo e al rischio e guidato dai suoi sogni e dalle sue utopie. Di fatto io voglio impostare la mostra all’Arsenale come un viaggio attraverso le ansie, i drammi e le finzioni del mondo contemporaneo.

[GdA] Qual è la vostra opinione sulla Biennale di Venezia rispetto alle altre biennali?

[M.dC.]  Credo che quella di Venezia sia la Biennale per eccellenza, è l’esposizione internazionale più antica e il pubblico proviene da tutte le parti del mondo. E un pubblico vasto, non composto soltanto da specialisti. Quella di Venezia è e continua a essere la Biennale per eccellenza. Poiché è quella che offre il panorama più ampio della situazione attuale dell’arte.

[R.M.]  Quella di Venezia è la madre di tutte le biennali. Esiste da no anni, ha proposto sempre nuovi punti di vista dell’arte. Ha mantenuto una cosa molto importante: la continuità. La Biennale di Venezia è integrata nel patrimonio storico della città e ospita padiglioni internazionali accanto a padiglioni nazionali. In questo è unica al mondo. Combina questi due modelli di interpretazione del presente e della nazionalità, facendo convivere formule diverse di intendere la coabitazione nazionale e internazionale. Si è trasformata in un referente per la riaffermazione nazionale (quest’anno parteciperanno quasi ottanta paesi) e attraverso l’esposizione internazionale è diventata un esercizio significativo di interpretazione dei flussi della globalizzazione. Ci sono molte persone che la criticano, ma credo sia un modello valido, e lo dimostra la partecipazione più estesa a ogni edizione, da ogni parte del mondo. Credo che dovrebbero esserci tante biennali quanti musei!

[GdA] Le ultime edizioni della Biennale sono state criticate per l’eccessivo numero di opere…

[M.dC.]  Avrò meno artisti, e ognuno di loro verrà rappresentato, a seconda del suo tipo di espressione, con più opere o con un progetto importante, affinché davvero si possa intenderne il lavoro. Lo spettatore può non essere in grado di sostenere la mole delle esposizioni delle edizioni passate. È anche vero che ogni anno ci sono sempre più paesi che vogliono partecipare alla Biennale e che non hanno spazio per allestire le proprie opere all’interno dei Giardini e dell’Arsenale, e devono esporre al di fuori di questi spazi. Tutto ciò induce i visitatori a provare un senso di ansia, passando da un’opera all’altra e sentendo di non aver il tempo per ammirare ciascuna quanto sarebbe necessario, o di vedere un video fino alla fine, nel timore che giunga il tempo della chiusura. Io credo che questo sia negativo e, non so in che modo, bisognerebbe diminuire l’offerta.

[R.M.]  Tutte le Biennali sono sempre criticate! La mia proposta è molto differente da quella di Bonami, che aveva optato per un collage di esposizioni e lavorato con 12 curatori. Io ho assunto la responsabilità di curare da sola la sezione dell’Arsenale. Penso che 350-400 artisti siano troppi e anch’io credo che il pubblico abbia provato, due anni fa, un senso di saturazione. La logica della Biennale esige che la nuova edizione proponga una selezione più ridotta per smentire la sensazione che le Biennali si siano trasformate in un grande supermercato dove c’è posto per tutti. Nella nuova edizione ci saranno meno artisti e ciascuno di essi sarà rappresentalo meglio, anche se è più complesso e rischioso fare una selezione ristretta che esporre un maggior numero di opere e punti dì vista. Avrò a disposizione 10.400 metri quadrati interni all’Arsenale, ma desidero allestire spazi «site specific» all’esterno. Ci sono artisti che hanno già proposto opere per il Lido e per piazza San Marco. Saranno presenti non più di cinquanta artisti. Mi interessano quelli con un percorso già consolidato, che abbiano mantenuto una posizione e una continuità almeno nell’ultima decade, e non siano scomparsi dalla scena artistica, ma abbiano saputo mantenersi in luce, sopravvivere alla critica.

[GdA] Signora Martínez, si è da poco inaugurata la prima Biennale d’arte contemporanea di Mosca e lei è nello staff curatoriale. Com’è organizzata?

[R.M.]  Promossa dal Ministero della Cultura, la mostra si propone come occasione per ridare il giusto peso sulla scena internazionale all’arte russa. Faccio parte di un’équipe di sei curatori, tra cui un funzionario del Ministero russo. Abbiamo partecipato insieme alle selezioni; nessun curatore ha lavorato da solo con gli artisti. Il Ministero, inoltre, ha chiesto la nostra disponibilità anche per l’edizione del 2007. Questa prima edizione ha la responsabilità di stabilire una struttura e un metodo, e pur essendo una biennale transgenerazionale, abbiamo invitato artisti molto giovani, che abbiano voglia di impegnarsi in questa sfida.

[GdA]  Lei è anche curatore in capo del nuovo Museo di Arte contemporanea di Istanbul, inaugurato recentemente…

[R.M.]  Il Museo è stato inaugurato l’11 dicembre 2004. Il Primo Ministro turco voleva che il Museo rappresentasse un gesto simbolico nella fase in cui la nazione sta chiedendo un suo ruolo nella Comunità europea. È un Museo privato. Il nucleo centrale è costituito da tre collezioni: quella del Museo di pittura e scultura, la collezione dell’Ish Bank e la collezione dell’Eczacibasi Holding, il gruppo imprenditoriale che ha fondato il Museo d’arte moderna. L’esposizione inaugurale di queste tre collezioni è stata organizzata da tre curatori locali esperti di arte turca moderna. Il Museo è concepito come un centro culturale per avvicinare il pubblico all’arte moderna e contemporanea, con spazi dedicati al cinema, alla fotografia, alle esposizioni temporanee, a un ristorante e a un bookshop. Il programmo di mostre temporanee comprende una monografica del pittore turco Fikret Muallah (da marzo a giugno), una rassegna di architettura durante l’estate (in occasione del congresso internazionale degli architetti), una mostra di arte turca contemporanea che verrà presentata a settembre durante la nona edizione della Biennale di Istanbul; chiuderemo l’anno con un’esposizione internazionale che curerò personalmente con il titolo «Instabilità permanente».

[GdA]  Signora de Corrai, che cosa rappresenta la nomina a direttore della Biennale all’interno della sua carriera?

[M.dC.]  È una sfida molto importante. Avrei preferito avere sei mesi o un anno di più. La mia maggio-re preoccupazione è che il tempo mi obblighi a fare cose che avrei desiderato fare in maniera di-versa. E molto difficile ottenere opere dai musei, è difficile che gli artisti riescano a produrre ope-re veramente interessanti; soprattutto quelli che lavorano più lentamente e che sono quelli che maggiormente mi interessano, non riusciranno ad avere tempo per produrre. Per me è stata un’enorme soddisfazione essere la codirettrice della Biennale, dopo essere stata cocuratrice della sezione «Aperto» nel 1986 e aver curato il padiglione spagnolo nel 1988.

[GdA] In quali altri progetti è impegnata attualmente?

[M.dC.]  Nel 2004 ho curato una retrospettiva di Julian Schnabel per il Museo Reina Sofía di Madrid e una mostra sull’ultimo Mirò, con opere degli ultimi dieci anni, per il Centro Guerrero di Granada. Sto curando due colle-zioni per la Fundación Telefònica, una di opere cubiste e l’altra di artisti che utilizzano la fotografia come mezzo di espressione artistica. Sono anche incaricata della ricerca delle opere per una collezione di arte contemporanea, finanziata e gestita da un gruppo di imprenditori. Questa collezione si trova nel Museo Patio Herreriano di Valladolid. Si tratta di una rac-colta esclusivamente incentrata sul XX secolo spagnolo, mentre quelle per la Fundación Telefònica sono internazionali. Sto poi collaborando con il Banco di Santander, curando la selezione artistica di un progetto per la costruzione di una nuova città di 2omila abitanti a 35 km da Madrid, un progetto che deve portare l’arte a intrecciarsi con la vita quotidiana. Sto curando la selezione delle opere da collocare soprattutto all’esterno, spazi pubblici dove l’arte dialogherà con le persone, l’architettura e il paesaggio. Gli edifici saranno ultimati nel prossimo marzo.

[GdA]  Come ha iniziato a lavorare nel mondo dell’arte?

[M.dC.]  Ho ereditato dalla mia famiglia la passione per l’arte. Mio padre aveva una profonda passione e conoscenza dell’arte e della musica. Eravamo sette fratelli e tutte le domeniche ci portava a visitare un museo, anche all’estero. Il mio primo contatto con l’arte moderna risale a un’esposizione di Picasso, a cui mi portò mio padre, a Parigi, quando avevo 14 anni, e mi par-ve incredibile. Cominciai a lavorare nel 1970, aprendo un atelier di opere grafiche, poiché a Madrid non esistevano scuole d’incisione. Si chiamava Grupo Quince e furono dieci anni molto interessanti perché partecipavo diretta-mente al lavoro degli artisti; questo mi aiutò molto a capire il processo intellettuale, fisico e visivo delle loro opere. Nel 1980 collaborai con la Fundación Juan March per l’organizzazione delle mostre di Matisse e della Minimal art, tenendo la conferenza inaugurale. Nel 1981 iniziai a lavorare per la Fundació La Caixa.

[GdA]   È stata responsabile della collezione della Caixa dalla sua costituzione?

[M.dC.]  La mia relazione con la Fundació La Caixa è stata lunga e intensa: dal 1981 alla fine del 1990 sono stata la direttrice artistica dell’Istituzione, organizzando e sviluppando il programma di mostre a Madrid e a Barcellona, tra le quali quelle dedicate a Duchamp, Moran-di, Gorky, fasper fohns, Twombly, Guston, Gnoli, Salle, Dokoupil, Deacon. Ho organizzato anche alcune collettive, come «El arte y so doble», «Eljardín salvaje» e «La razón revisada», che ebbero grande risonanza in Europa. A partire dal 1985 venne avviata la collezione di arte contemporanea, un settore che non ab-bandonai neanche durante i quattro anni nei qua-li fui direttrice del Museo Reina Sofía. Nel 1995 rientrai alla Caixa come direttrice della collezione, delle acquisizioni e di tutte le mostre realizzate con le opere della raccolta, sia in Spagna sia all’estero. Ma il mio maggiore impegno fu la creazione di uno spazio dove si potesse esporre la collezione. Sono stati sette anni di intenso lavoro, fino al 2002, quando è stata inaugurata Caixa Forum, con una selezione della collezione. In quel momento ho deciso di lasciare Barcellona per iniziare nuovi progetti a Madrid.

[GdA]  Signora Martinez, come ha iniziato a la-vorare nell’arte contemporanea?

[R.M.]  Ho studiato Storia dell’arte a Barcellona, ma sono nata a Soria, una piccola città nel centro della Spagna. Non ho mai deciso di diventare una curatrice; è stato un destino. Ho fatto parte per 10 anni del Programma Culturale ed Educativo della Caixa e ho diretto la Biennale di Barcellona. Alla Caixa ho organizzato nel 1992 le esposizioni alla «Sala Moncada» con artisti emergenti; nel 1996 ho fatto parte del team di curatori della prima edizione di Mani-festa. Il consolidamento della mia carriera si è verificato in occasione della quinta Biennale di Istanbul del 1997, che curai da sola. Ho curato, fra le altre mostre, le Biennali di Santa Fe nel 1999, di Busan in Corea e la Echino Tsumari in Giappone. Ho organizzato il padiglione spagnolo alla Biennale di Venezia nel 2003. Il mondo dell’arte è molto cambiato ne-gli ultimi 10 anni.

[GdA]  Quali ritenete siano i mutamenti più radicali?

[M.dC.]  Forse il più importante sì è prodotto negli anni Ottanta, quando gli artisti hanno iniziato ad apparire sulle copertine dei grandi settimanali, come «Time Magazine» o «Newsweek». Fino ad allora l’arte e gli artisti erano oggetto di critica o commento soltanto nelle pagine di cultura o società dei quotidiani, ma da allora in poi si sono convertiti in personaggi mediatici. Questo diverso trattamento da parte dei media fa sì che a volte i musei non siano più spa-zi di contemplazione, riflessione, emozione ed esperienza, ma un’offerta d’ozio e di tempo libero da parte delle città; il pubblico, oggi, spesso visita i musei come fossero parchi a tema. L’altro grande cambiamento che si è prodotto più recentemente è il fenomeno della proliferazione dei musei, delle fiere e delle biennali. Non so ancora se si tratti di un fatto positivo o negativo.

[R.M.]  secondo luogo, è cambiato il mercato: le fiere d’arte internazionali stanno acquisendo un ruolo che relega un po’ in secondo piano i musei e le stesse biennali. La loro proliferazione mette in circolazione prodotti a gran velocità e favorisce la speculazione artistica. Sul piano teorico, nell’ultimo periodo il dibatti-to si è rinnovato grazie al coinvolgimento delle periferie geopolitiche e delle periferie sociologi che, come quello dell’arte femminile. Quali spazi rimangono per le piccole gallerie in un mercato dominato da pochi grandi mercanti e dalle case d’asta?

[M.dC.]  Credo che le gallerie giovani svolgano un ruolo importante come vent’anni fa; è grazie a esse che noi scopriamo molti artisti. Però accade anche che quando gli artisti sono conosciuti, le gallerie con più potere desiderano averli, e gli stessi artisti hanno bisogno di andarsene per realizzare progetti di maggior respiro. Mi spia-ce molto vedere numerose gallerie che hanno realmente cominciato con un artista, ne hanno seguito la carriera, e poi costui, quando comincia a vendere, va presso una grande galleria. Ma è la legge del mercato con la quale dobbiamo convivere. Credo che ci siano sempre state gallerie più potenti di altre. Per potenza non intendo soltanto la maggiore disponibilità economica, ma anche la capacità di far produrre agli artisti le loro opere migliori. A volte noi curatori veniamo accusati di farci influenzare da alcune gallerie. Io non credo che sia così, ma penso che anche coloro che dirigono le gallerie abbiano una sensibilità diversa: a volte ti intendi con qualcuno e con altri no.

[R.M.]  Le gallerie hanno un ruolo fondamentale perché permettono che l’artista continui a produrre. Si occupano della parte più pragmatica, la circolazione del denaro e del prodotto dell’artista nelle case, della vita delle persone o della vita pubblica e dei musei. Non si può negare che esiste chi compra solo per speculare e non per il piacere di educarsi. Nel momento in cui un artista produce un’opera, questa entra in un sistema con le sue regole, ed è il gallerista a far sì che la produzione si insedi nel territorio e a permettere all’artista di vivere e continuare a creare.

[GdA]  Che cosa pensate della proliferazione di fiere e biennali?

[M.dC.]  È vero che fiere e biennali offrono agli artisti possibilità che altrimenti non avrebbero, ma dovremmo creare più specializzazione, far sì che le fiere non fossero tutte uguali, né le biennali tutte globalizzate. Alcune fiere potrebbero essere dedicate unicamente a gallerie che lavora-no con artisti emergenti e le biennali concentrar-si su un contesto geografico, su un continente. La proliferazione di fiere e biennali ha prodotto un grande cambiamento, in quanto il mondo dell’arte si trasferisce nelle città per visitare queste rassegne. E un fenomeno tipico della globalizzazione, ma al tempo stesso sono maggiori le pressioni subite dagli artisti, chiamati a produr-re più opere di quanto consenta la loro effettiva capacità di concepire lavori interessanti. A volte sembra che si chieda agli artisti di realizzare «collezioni» per tutte le «sfilate» stagionali, poiché in molte fiere e biennali si vedono sempre gli stessi autori.

[R.M.]  Le mostre e le fiere stanno mettendo sul mercato più di quanto questo possa assorbire. Ciò che a me interessa di più delle esposizioni è l’aspetto culturale. In tal senso Arco di Madrid organizza un programma straordinario. L’anno scorso a Basilea sono rimasta sbalordita dalla sezione «Art unlimited»: era come una biennale però senza il punto di vista di un curatore. È un esempio molto chiaro del liberalismo che domina il mercato: chi ha il denaro per esserci, c’è. A Venezia cercherò di dimostrare qual è il ruolo del curatore e quali sono le limitazioni di or-dine intellettuale che un curatore può imporre al mercato. Un curatore è colui che nel caos del mercato pone un certo ordine fìlosofico e culturale che non ha niente a che vedere con i valori economici. Io difendo il ruolo del curatore come colui che dà significato a ciò che lo spettatore sta vedendo. Questa è la romantica posizione che noi curatori dobbiamo difendere.

[GdA]  Ma gli stessi artisti sembrano complici di un sistema dominato dal mercato…

[R.M.]  So che la speculazione fa parte del gioco dell’arte, di questo teatro del mondo che stiamo vivendo. Posso criticare il contributo esteti-co dato dagli artisti nell’essere soggetti e oggetti attivi di questo gioco, ma mi sembra un esercizio di sopravvivenza, cinico o ironico. È compito dell’artista sapere in quale contesto si muove, non essere un romantico illuminato che pensa che la creazione sia qualche cosa separata dalla realtà. Tutto è parte del sistema: mi dà fastidio, mi adombra, ma non mi sorprende.

[GdA]  Come valutate la situazione dell’arte contemporanea in Italia?

[M.dC.] Credo che l’Italia abbia sempre sofferto di una carenza di musei, anche se ha fatto molte mostre, ma vanta una rete di collezionisti e galleristi straordinari. Dal punto di vista espositivo e museale c’è poca offerta di scambio, ma credo che anche il collezionismo e le gallerie sia-no indispensabili affinché le opere siano visibili, e l’Italia ne ha sempre avute.

[R.M.]  Mi pare che ci sia una più folta presenza di artisti italiani nel circuito internazionale, e credo che questo sia il termometro più attendibile della situazione. Continuo a pensare che nel Mediterraneo, in Italia, in Spagna, in Grecia, gli artisti soffrano di un insufficiente sup-porto istituzionale e dell’assenza di solide strutture; gli stessi musei sono stati costruiti tardi. Ci sono stati artisti che individualmente hanno goduto di vitalità e fama particolari, ma non vi è stata una espansione orizzontale, come in Gran Bretagna o in Germania. In Spagna, ad esempio, lavorano molti «guerrieri solitari», artisti con individualità molto forti, ma si tratta di figure isolate. Credo che lo stesso aspetto sia tipico della scena italiana. Siamo portatori della «cultura del miracolo»: è l’energia individuale di una persona quella che fa la differenza. Torino e Roma sono i veri epicentri artistici italiani, con Venezia, dove ha sede la Biennale. Ogni città ha il suo temperamento e la sua identità. M.C. Credo che sia molto chiaro che così come la crisi economica alla fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta danneggiò profonda-mente l’arte, ora si stia invertendo la situazione tra beni immobili e artistici. E più facile che tu possa comprare una casa stupenda nel giro di 20 anni che un’opera d’arte, che è unica. Questo in-fluisce, come il prezzo del mercato, e si stanno persino creando i fondi di finanziamento per l’acquisto di opere d’arte, e tutto fa sì che il prezzo dell’arte salga. A me sembra che sia una follia.

[GdA]  Quali sono gli artisti che non bisogna perdere di vista?

[M.dC.]  Ci sono moltissimi artisti che mi interessano e molti di loro si vedranno alla prossima Biennale di Venezia.

[R.M.]  Bourgeois e Bruce Naumann, per citar-ne solo alcuni, siano figure indiscutibili, già storicizzate. Per le nuove posizioni invito i lettori a visitare la prossima Biennale dì Venezia.