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Song to Song 19: Sequenza XII, per fagotto

Avventure ossessive di un ascoltatore. Trenta canzoni perfette, da Eno a Monteverdi, raccontate a cavallo tra musica e altre discipline da Gianluigi Ricuperati

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Luciano Berio

Sequenza XII, per fagotto, Luciano Berio 1995

‘Sequenza’ è una parola bellissima, che si adatta e dispiega in diversi alveoli semantici, dal cinema (‘piano sequenza’) alla vita quotidiana (una ‘sequenza di eventi’), e naturalmente alla musica. Anche se non è una canzone, ma un’opera colta, forse del più grande e intelligente compositore italiano del secondo Novecento, Luciano Berio, Sequenza XII per fagotto (1995) ha – come il ciclo di cui fa parte – una tale perfezione e una tale vicinanza ai nostri modi contemporanei, da meritare sempre uno spazio di eccezione.

Per 30 anni Luciano Berio ha coltivato, accanto alle sue ambiziose e un tempo controverse opere per il palcoscenico e la sala da concerto, un genere speciale di musica solistica che chiama “sequenza”. Ognuna di esse è un breve ma sostanzioso lavoro virtuoso non accompagnato, teatrale e pieno di contrasti, che di solito sfrutta tecniche esecutive non convenzionali.

Berio ha iniziato con una Sequenza per flauto nel 1958, e in seguito ha affidato l’interpretazione di questa serie a musicisti eccezionali al trombone, alla viola, al pianoforte e ad altri strumenti.

Berio ha certamente ascoltato – non so dire se amato – le esplorazioni modali e furiose dell’ultimo Coltrane, o in generale le sperimentazioni più radicali del free jazz. Si sentono in questo brano profumi e progressioni tipiche di quel cosmo sonoro, e forse mi spingerei a dire che è una delle partiture scritte più vicine al tono psichico dell’improvvisazione che abbia mai sentito. Si respira al ritmo di un’oscillante novità, poi di uno strillo impazzito, poi di un avvicinarsi a piccoli passi verso qualcosa, e ad altrettanti piccoli passi allontanarsi, come in certe frasi del Julio Cortazar più nervoso, di metà anni sessanta, non a caso lo scrittore argentino era un appassionato di jazz, nell’ inquietante racconto ‘Luogo chiamato Kindberg ogni tanto esplode un ‘Archie Shepp’ (grande jazzista sperimentatore) come un talismano verbale, un nome da invocare: l’autore argentino sapeva che la musica di uno strumento a fiato è essenzialmente una scrittura riflessa del respiro umano.

Ma c’è qualcosa di più. Il meraviglioso progetto delle ‘sequenze’ di Berio è anche un munifico atto di arte concettuale applicata alla Musica, un attentato metafisico all’unità dell’esperienza orchestrale, un ingrandimento delle piste di registrazione, come riascoltare un disco sui nastri originali della prima registrazione, isolando i diversi strumenti. La realtà si amplifica senza espandersi, operando al proprio interno una divisione di punti di vista, quattro passi nell’Impossibile: ogni voce della Vita, come in un catalogo, esplosa e apprezzata senza le altre.

L’intercapedine del reale, così amata proprio da Julio Cortazar, mostra la promessa di avventure senza fine.