Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Avventure ossessive di un ascoltatore. Trenta canzoni perfette, da Eno a Monteverdi, raccontate a cavallo tra musica e altre discipline da Gianluigi Ricuperati
È il 7 ottobre 2007. Sono le undici di sera. È First Avenue. Sono le strade alte di Manhattan, dalla novantesima alla sessantesima. Una passeggiata. Un certo numero di sliver, i grattacieli smilzi, con una base non più larga di quaranta metri. L’intermittenza delle luci negli appartamenti. Domenica sera. New York Times della domenica, l’ultimo dinosauro della carta stampata da cui si impara davvero qualcosa. Un uomo davanti a me cammina lento, aggravato da un doppio fastello di oggetti che non riconosco. Mi avvicino sempre di più.
Sto ascoltando Ladytron, una canzone che compare nel primo album dei Roxy Music, ma nella versione di un gruppo chiamato Venus in Furs. La voce sembra quella di Bryan Ferry. È un’interpretazione della voce di Bryan Ferry. Sulla spalla destra l’uomo porta uno, due, forse dieci cerchi di paglia da mobilio: sembrano hula-hoop. La voce, in effetti, appartiene a Thom Yorke, e i Venus in Furs sono una band occasionale riunita dalla necessità di registrare la colonna sonora di un film – un film che ricordo bene – un film che ora è stato sostituito da un altro film. Sulla spalla sinistra dell’uomo oscilla un fascio di piccoli cilindri di legno: sembrano parti di bastoni o gambe di tavoli – una pertica tagliata da un machete metronomico. Il film si chiamava Velvet Goldmine, il regista Todd Haynes – una sorta di reportage multifinzionale e colto sul mito di David Bowie.
Rallento per tenerlo davanti a me. L’uomo ha i rasta. Si è fermato. Immobile. Lo osservo. Non c’è nessun altro. Solo taxi e auto. Lascia cadere entrambi i pesi come le persone cariche di borse della spesa, simmetria e scioglimento. Si inginocchia. Scioglie il fascio di paglia. Si siede per terra. Inizia a riavvolgere, annodare, incastrare. Ha un taglierino o qualcosa di simile. Mi appoggio all’angolo di un edificio su cui c’è una targa di finto bronzo. Passa qualcuno. Lo evita. Lo guarda. A volte lo saluta. A volte capisce cosa sta facendo. Domani esce nelle sale americane un altro film di Todd Haynes, il film che ho già visto in Europa, il film che ha sostituito perfettamente Velvet Goldmine. Intanto i Radiohead continuano a imitare i Roxy Music. Una canzone su Humphrey Bogart.
L’uomo sta costruendo una sedia. Le gambe stanno in piedi. La paglia s’intreccia a una velocità sorprendente. Lo schienale assomiglia a un vero schienale. È passato un quarto d’ora. Sul New York Times della domenica c’è un articolo sul nuovo film di Todd Haynes – una sorta di reportage multiplo e funzionale intorno alla maschera pubblica di Bob Dylan. Gli artisti pop si misurano anche sulla qualità delle cover. Thom Yorke imita il vibrato di Bryan Ferry ancora una volta, in un pezzo alla Kurt Weill chiamato Bitters End, mentre rimango attonito davanti a questo oggetto. Come si mette al mondo qualcosa.
Questa cosa procede verso l’alto di minuto in minuto. Ora è al livello delle ginocchia, poi dei fianchi, infine diventa una vera sedia – un luogo in cui sedersi, riposarsi, appoggiarsi. L’uomo prende le distanze. Due passi indietro. Poi di nuovo vicino. La consistenza della sedia. Si gira. Non so se mi sta guardando o si sia accorto di me. Non sembra interessato. Semplicemente, con unico gesto, si lascia cadere all’indietro, ecco, la schiena batte contro lo schienale. Tutto sembra naturale. All’improvviso inizia a gridare con le mani a megafono e la testa in tutte le direzioni – sellin’a’chair !, sellin’a’chair!! sellin’a’chaiiiir!!! sellin’a’chaaaaair!
Un’ora dopo sono davanti alla tastiera, pronto a mettere per iscritto alcune ragioni intorno a uno slogan. Lo slogan è: i Radiohead sono il gruppo più importante del pianeta. È una sorta di cruciverba. È quello che penso. Una delle cose più interessanti dei cruciverba è il modo in cui si susseguono le indicazioni sotto la lista verticali e orizzontali – una specie di cripto gramma del cripto gramma, una sequenza di stringhe che potrebbero allacciare e non allacciano. Il più del meno di un senza. Credo che sia l’unico modo autentico per dare conto della complessa costruzione interpretativa che sottende a un’analisi vagamente illuministica di un grandioso, potente, rilevante fenomeno pop. Di fronte al quale non si possono più fare una serie di cose. Non si può fare della sociologia. Non si può fare della fenomenologia. Non è tanto interessante fare della critica. Non è tanto sensato fare della cronaca. Si possono fare principalmente due cose.
La prima – fare della musicologia tradizionale, con i dovuti arrangiamenti del caso. La seconda – fare della filosofia, con i dovuti arrangiamenti del caso. Immagino ce ne sia una terza, dev’esserci, e immagino che debba competere a me. Non so se sono competente. Sono uno scrittore. Uno scrittore è qualcuno che ha appoggiato la membrana della memoria su quella dell’acume, e la membrana dell’esperienza traslata su quella dell’esposizione immediata. Se sono qua, se sono arrivato a questo punto, è perché credo che si possa fare qualcosa che non sia musicologia e non sia filosofia, e che sia meno intelligente e affidabile di entrambe – ma sia qualcosa cui relazionarsi con manualità umana.
Un oggetto ermeneutico, perdonate davvero l’espressione, in grado di riconoscere alcuni tratti del testo che sono le canzoni dei Radiohead e che si faccia riconoscere dagli ascoltatori delle canzoni dei Radiohead come un intermediario non inquietante. La musica pop è uno dei fenomeni decisivi della nostra vita. Della mia vita di sicuro. Se dovessi buttare giù la lista dei nomi delle associazioni vittime del terrorismo o la lista dei pezzi sul mio Ipod, non avrei esitazioni. Se si parla di interpretare, di provare a dare un senso ai segnali provenienti da quella lista – dell’Ipod – credo sia urgente stabilire delle coordinate avanzate e insieme accettabili. Non abbiamo più bisogno di robot oracolari.
Abbiamo bisogno di messaggeri emotivamente dotati. Ecco perché si conosce meglio la musica pop, a questo punto, compulsando con passione e dolore, fastidio e ossessione, un sito come www.songmeaning.com piuttosto che in molti altri modi. (Si tratta di un forum minimale e molto basico, ma con un che di enciclopedico ed esaustivo, in cui i partecipanti commentano i testi delle canzoni facendo proprio quel che inorridisce i musicisti durante le interviste: chiedendosi a vicenda di cosa parla questa canzone?)