Uno dei modi di legarsi a un canto è levargli di dosso il potere di essere invisibile. Quando ascoltavo per le prime volte Beauty Queen- tante prime volte compongono questo genere di liaisons- ero ovviamente ammaliato dallo stacco iniziale del brano, quel ‘Valerie please’ che si staglia da solo, sul tappeto di due accordi di sintetizzatore, prima che il resto – la batteria il piano elettrico eccetera -lo segua in un quattro quarti sereno. Mi rapiva così tanto che dovevo associargli un viso, e fortuna voleva che in una libreria del centro della città dove abitavo laborasse una ragazza chiamata Valeria. L’invocazione a una donna amata, forse negli anni della prima giovinezza, e poi necessariamente ‘lasciata andare’ (non ‘lasciata’, non ‘usata’, non ‘abbandonata’: si tratta di una lente focale quasi femminista, attraverso la quale la ‘regina di bellezza’ si muove veloce, indipendente dal fare maschile, anche se mai priva del suo sguardo) mi pareva scendere e salire e adagiarsi lungo la forma vivente del corpo di Valeria, e tanto mi bastava perché scattasse un’identificazione totale con il resto delle liriche, che però all’epoca non erano così disponibili e presenti come adesso, e quindi finivano per apparire e sparire, simili a frangi di sole dietro a un banco di nuvole.
I testi, alla fine degli anni novanta, con internet ancora 56k, venivano e andavano. Ma a rileggerla ora, e pure allora, si trattava ovviamente di un classico inno alla beltà, ma pure un po’ banale, pensavo, godendo lungo i bordi ricorsivi della struttura del brano come un dito lungo l’ombra di una spina dorsale arcuata. Dopo vent’anni, sono invece tre le cose che rendono Beauty Queen un pezzo perfetto. La prima è la struttura assolutamente originale per una canzone pop: sei strofe senza ritornello, con un guado a metà nel quale le strumentazioni elettroniche di Eno e le chitarre di Andy Mac Kay s’inseguono, fuggono e poi dileguano portando di nuovo all’invocazione iniziale, per poi dare altre tre strofe.
La seconda è la versificazione insieme delirante e colta, che conduce l’io poetante a rivolgersi al primo amore con un misto di adorazione e rassegnazione, sottolineando che condivide con la sua musa un ‘ideale di bellezza’, ma che ‘il tempo dei piani fatti insieme è ormai passato’, per poi rivolgersi ai suoi ‘occhi piscina’ che ‘svolazzano nella brezza marina, tra Hockney e il kitsch mediterraneo. fino a immaginare ‘cargo molto strani’ (forse eco dei ‘cargo cult’ di Mondo Cane, poi citati da Gainsbourg ? O forse sono soltanto navi da carico?), grazie ai quali le ‘nostre anime-navi intraprendono un ‘solo trip to the stars’, per poi chiedersi dove li porterà quel viaggio, e rispondere, al termine della canzone, secco colpo di rullante, che ‘non lo sapremo mai’.
La terza, è, appunto la voce di Bryan Ferry: siluro sinuoso, vibrato, dono di scollare tra il grave e l’acuto, con l’accento inglese che compare tra diverse maschere vocali: un teatro dell’ispirazione, un modo confidenziale senza genere assegnato, con un po’ di ‘ideal’ (Baudelaire) e un po’ di ‘Universal’ (lastre di suono che ricordano partenze di macchine per l’esplorazione cosmica.
Beauty Queen non porta mai allo svenimento, ma anzi dondola di sfinimento: non c’è picco, non c’è svolgimento, non c’’è soluzione, soltanto continuità. Forse non è nemmeno una canzone. Forse è un’oscillazione.