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Song to Song 1: Beauty Queen

Avventure ossessive di un ascoltatore. Trenta canzoni perfette, da Eno a Monteverdi, raccontate a cavallo tra musica e altre discipline da Gianluigi Ricuperati

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Pensare alla Musica – darle parole come si da acqua a una pianta, associare forme mentali composizioni musicali – è l’esercizio di prosa più assoluto ricco e sfiancante che ci sia, per chi veleggia nel vano tentativo di restituire alla Musica quella dose di Piacere-Senso che ti regala senza sosta, provando ad occupare lo spazio di mezzo tra la scrittura critica ‘scientifica’ (che è talvolta lontana dal piacere) e la soddisfatta afasia del puro sentire (che non ha bisogno di senso perché è puro piacere).
Chi scrive pratica questo esercizio dall’alba della sua vita culturale, e con la rubrica che inaugura oggi prova a condividerla raccontando alcune canzoni perfette.

Beauty Queen, Roxy Music, 1972. Scritta da Bryan Ferry

Uno dei modi di legarsi a un canto è levargli di dosso il potere di essere invisibile. Quando ascoltavo per le prime volte Beauty Queen- tante prime volte compongono questo genere di liaisons- ero ovviamente ammaliato dallo stacco iniziale del brano, quel ‘Valerie please’ che si staglia da solo, sul tappeto di due accordi di sintetizzatore, prima che il resto – la batteria il piano elettrico eccetera -lo segua in un quattro quarti sereno. Mi rapiva così tanto che dovevo associargli un viso, e fortuna voleva che in una libreria del centro della città dove abitavo laborasse una ragazza chiamata Valeria. L’invocazione a una donna amata, forse negli anni della prima giovinezza, e poi necessariamente ‘lasciata andare’ (non ‘lasciata’, non ‘usata’, non ‘abbandonata’: si tratta di una lente focale quasi femminista, attraverso la quale la ‘regina di bellezza’ si muove veloce, indipendente dal fare maschile, anche se mai priva del suo sguardo) mi pareva scendere e salire e adagiarsi lungo la forma vivente del corpo di Valeria, e tanto mi bastava perché scattasse un’identificazione totale con il resto delle liriche, che però all’epoca non erano così disponibili e presenti come adesso, e quindi finivano per apparire e sparire, simili a frangi di sole dietro a un banco di nuvole.
I testi, alla fine degli anni novanta, con internet ancora 56k, venivano e andavano. Ma a rileggerla ora, e pure allora, si trattava ovviamente di un classico inno alla beltà, ma pure un po’ banale, pensavo, godendo lungo i bordi ricorsivi della struttura del brano come un dito lungo l’ombra di una spina dorsale arcuata. Dopo vent’anni, sono invece tre le cose che rendono Beauty Queen un pezzo perfetto. La prima è la struttura assolutamente originale per una canzone pop: sei strofe senza ritornello, con un guado a metà nel quale le strumentazioni elettroniche di Eno e le chitarre di Andy Mac Kay s’inseguono, fuggono e poi dileguano portando di nuovo all’invocazione iniziale, per poi dare altre tre strofe.
La seconda è la versificazione insieme delirante e colta, che conduce l’io poetante a rivolgersi al primo amore con un misto di adorazione e rassegnazione, sottolineando che condivide con la sua musa un ‘ideale di bellezza’, ma che ‘il tempo dei piani fatti insieme è ormai passato’, per poi rivolgersi ai suoi ‘occhi piscina’ che ‘svolazzano nella brezza marina, tra Hockney e il kitsch mediterraneo. fino a immaginare ‘cargo molto strani’ (forse eco dei ‘cargo cult’ di Mondo Cane, poi citati da Gainsbourg ? O forse sono soltanto navi da carico?), grazie ai quali le ‘nostre anime-navi intraprendono un ‘solo trip to the stars’, per poi chiedersi dove li porterà quel viaggio, e rispondere, al termine della canzone, secco colpo di rullante, che ‘non lo sapremo mai’.
La terza, è, appunto la voce di Bryan Ferry: siluro sinuoso, vibrato, dono di scollare tra il grave e l’acuto, con l’accento inglese che compare tra diverse maschere vocali: un teatro dell’ispirazione, un modo confidenziale senza genere assegnato, con un po’ di ‘ideal’ (Baudelaire) e un po’ di ‘Universal’ (lastre di suono che ricordano partenze di macchine per l’esplorazione cosmica.
Beauty Queen non porta mai allo svenimento, ma anzi dondola di sfinimento: non c’è picco, non c’è svolgimento, non c’’è soluzione, soltanto continuità. Forse non è nemmeno una canzone. Forse è un’oscillazione.

L’attrice britannica Valerie Leon con il gatto al guinzaglio per il film “Hammer Blood from the Mummy’s Tomb”, 1972.

testo:

Valerie please believeIt never could work outThe time to make plansHas passed, faded awayOh the way you lookMakes my starry eyes shiverThen I look awayToo much for one dayOne thing we shareIs an ideal of beauty
Treasure so rareThat even devils might careYour swimming-pool eyesIn sea breezes they flutterThe coconut tearsHeavy-lidded they shedSwaying palms at your feetYou’re the pride of your streetWhile you worship the sunSummer lover of fun
Gold number with neighboursWho said that you’ll go farMaybe someday be a starA fast mover like youAnd your dreams will all come trueAll of my hope, and my inspirationI drew from youOur life’s pattern’s drawn in sandBut the winds could not eraseThe memory of your faceDeep in the night
Plying very strange cargoOur soul-ships pass bySolo trips to the stars, in the skyGliding so farThat the eye cannot followWhere do they goWe’ll never know

La copertina dell’album “For Your Pleasure” con una foto di Amanda Lear in abito nero ed attillato mentre tiene al guinzaglio una pantera nera. ph. Karl Stoecker