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Song to Song 20: la musica dei Radiohead. seconda parte

Avventure ossessive di un ascoltatore. Trenta canzoni perfette, da Eno a Monteverdi, raccontate a cavallo tra musica e altre discipline da Gianluigi Ricuperati

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Charlotte Gainsbourg e Johnny Depp, intenti ad ascoltare “Creep” dei Radiohead in una scena del film: “Ils se marièrent et eurent beaucoup d’enfants” regia di Yvan Attal, 2004

Teste. Mondo. Radio.

Vorrei partire con due esempi molto efficaci di ciò che cerco di evitare. Di ciò che altri fanno già così bene che non vale la pena replicarlo. Il primo è un testo di Alex Ross, il critico di musica colta del New Yorker, apparso all’indomani dell’uscita di Kid A. Il secondo è un testo apparso su una delle migliori riviste letterarie degli ultimi anni, n+1, scritto da uno dei curatori della rivista, Mark Grief.

Il primo s’intitola The Searchers ed è un reportage musicologico dal fronte dei Radiohead alla svolta del secolo. Il secondo è un ponderato, agitatissimo affondo su che cosa significa produrre pensiero a partire dalla musica pop – sulla necessità che, come Adorno con Mahler e Schoenberg, qualcuno svolga attività teoretica intorno al pop. E visto che i Radiohead sono il gruppo più importante del pianeta, e il pianeta è immerso irrimediabilmente nel pop, e però i Radiohead sono così avanzati e accessibili che costituiscono un caso di studio ideale, alla fine del cerchio succederà che l’intermediario non-inquietante coincide con il soggetto di cui si sta parlando, e che forse la terza via cui accennavo è soltanto un piano ammezzato tra le due iniziali, e che forse tutto quello che sto scrivendo è uno sforzo inutile perché in realtà l’uomo per colpire la musica – per farsi colpire dalla musica – ha bisogno di due cose soltanto: un minimo di esperienza su cosa succede quando si produce un suono intenzionale e un minimo di esperienza su cosa succede quando si produce un frammento di vita non intenzionale.

 

Ecco come scrive Alex Ross:

 

A spalancare ai Radiohead le porte del successo è stata una canzone intitolata “Creep”. È diventata famosa in tutto il mondo nel 1993, quando il grunge era ancora agli apici del successo. Le parole della canzone esprimevano la rabbia auto-lacerante propria di una folla che si sentiva sconfitta: “You’re so fucking special/ I wish I was special/ But I’m a creep.” (Tu sei così speciale/ Anch’io vorrei essere speciale/ Ma sono disgustoso). La musica era modellata sulla base delle canzoni dei Pixies, come “Where is My Mind?”: arpeggi grandiosi, ma anche raffiche di chitarre elettriche. A collocare “Creep” lontano dalla musica grunge dei primi anni ’90 è stata proprio l’enfasi di questi accordi – in particolare il solenne passaggio dal Sol al Si maggiore. Non importa quante volte ascoltate la canzone, il secondo accordo continua a fluttuare magnificamente fuori dal sound. Le parole diranno anche “Sono disgustoso” ma la musica suggerisce “Sono maestoso.”

 

Ecco come lavora Mark Grief:

 

Più cerco di stabilire perché la musica dei Radiohead funziona, e per esteso perché funziona tutto il pop, più mi appare evidente che l’effetto del pop sui nostri ideali e le nostre azioni non è assolutamente quello di avere un effetto. Io credo, piuttosto, che il pop ci permetta di conservare dentro di noi cose che abbiamo già pensato, senza aver necessariamente provato il bisogno di esprimerle, e di preservare certi sentimenti che siamo riusciti a penetrare solo in modo intermittente, e con forme diverse, come la musica mescolata alle parole, una forma in cui il lato razionale e quello emotivo sono meno divisi. Credo che le canzoni ci rendano più forti, ci permettano di lasciarci andare ad azioni particolari, anche se da una canzone non si inizia mai nulla. E le singole canzoni, o i gruppi che ci piacciono, determinano gli ideali che siamo in grado di conservare e di far rivivere, le azioni che possiamo preparare – e quali saranno le canzoni e i protagonisti che daranno forma alla nostra futura esperienza privata, dipende da un’alchimia tra il nostro vissuto e l’arte stessa. Il pop non è né uno specchio, né il test Rorschach, in cui possiamo guardare e vedere esclusivamente noi stessi; e non è nemmeno una lezione, una poesia interpretabile, o un semplice atto di comunicazione definitiva. Insegna qualcosa, ma solo stimolando e preservando cose che noi abbiamo già cominciato altrove. Oppure prepara il terreno a nuove scoperte che avverranno in quell’altrove – il più delle volte una conoscenza che non avremmo mai ‘raggiunto’ diversamente, a meno che non fosse stata narrata, e poi fatta rivivere più volte dentro di noi, tramite questo mezzo.

 

 

Dunque. Come suggerisce Auto da Fè di Canetti, abbiamo il mondo, e la testa. La testa cerca di comprendere il mondo che fa di tutto per sfuggire alla testa. In mezzo, la musica. Cos’altro aggiungere, dopo la musicologia applicata al pop con superba capacità doppia, e biunivoca: da una parte l’aderenza al testo e dall’altra l’investitura di senso nei confronti del testo?

Cos’altro aggiungere, dopo un saggio illuminante come quello di Greif, in grado di aggredire elementi di verità sul mondo a partire dai difetti e dalle accensioni inattese, commoventi, delle teste che ascoltano il mondo, la musica, le parole, le idee, e tutto ciò che sta in mezzo, il diamante caotico di influenza reciproca in cui è incastonata la breve, lunga traccia biologica del fenomeno umano?

C’è un modo. Non c’è nessun modo. Spero ci sia un modo. Credo sia questo. Credo sia necessario mettere al mondo l’autobiografia di tutte le volte che viene ascoltata una canzone dei Radiohead. A qualunque latitudine. A qualsiasi condizione. Sotto qualsiasi esperimento sociale, a tutte le ore possibili e usando ogni mezzo. Presto le riviste di musica pop – le riviste di musica in assoluto, forse – diventeranno cataloghi infiniti di minuscole autobiografie – tasselli di rappresentazione che a volte riusciranno formidabili, spesso no, ma saranno lì, forti e inattaccabili: perché coincideranno con l’attuale assoluto di ciò che accade, di tutte le volte che viene premuto il tasto play, di tutte le volte che una testa e il mondo coincidono attraverso il mondo risucchiato da una testa nella griglia di accordi e timbri e parole che chiamiamo ‘canzone’.

Non sottovaluterei che uno dei motivi per cui i Radiohead sono l’esempio definitivo, la cavia sotto spirito del tempo, il gruppo più importante del pianeta, è che il loro nome coincide con la realtà spicciola del mondo. Guardatevi intorno. Qui a Soho, laggiù a Buenos Aires, a Roma, a Bordeaux, in Cina: le strade urbane sono popolate di esseri umani che dichiarano con quelle cuffiette sempre alle orecchie che il suono del mondo è inciso solo per loro, e i suoi confini collidono al millimetro con il perimetro del loro cranio. Emittenti, riceventi, auto-assorti. Teste. Mondo. Radio. Radio-teste.

Mentre ci penso, ho in testa un pezzo da The Bends, uno dei dischi minori dei Radiohead (che per molti gruppi là fuori sarebbe già il massimo della carriera: dai Franz Ferdinand a quasi tutti gli altri). Mentre ascolto le liriche ancora ‘naturalistiche’, le progressioni strutturali e gli squarci vocali ancora un po’ piacioni, mi rendo conto che l’autobiografia di tutte le volte che qualcuno ha ascoltato una canzone dei Radiohead è una piramide irraggiungibile. È un archivio cupo. Ma lì, a metà fra la piramide e l’archivio, sarebbe registrato una parte consistente di ciò che si potrebbe decifrare delle teste e del mondo in un altro tempo, sotto il turno del prossimo frangente storico, lassù nella mappa della cronologia.